Quando ancora l’economia si fregiava dell’aggettivo qualificativo “politica” e la comunità scientifica usava dibattere sulle ipotesi di armonia-contraddizioni del mercato, si evidenziarono in Italia alcuni filoni interpretativi che si contrapponevano alla teoria neo-classica muovendo da assunzioni teoriche differenti.
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Il lettore che non sia giovanissimo ricorderà, anche, che alla fine degli anni Settanta si sviluppò tra queste “scuole” un dibattito che, per coloro che rimpiangono il silente appiattimento delle scienze sociali anvuriane attuali, sarebbe liberatorio riprendere.
Per chi volesse affidarsi ai nostri ricordi, ci si consenta di ritornare con la mente a “the way we were”… Quella contrapposizione, ci si perdoni la fierezza, era un po’ più “avanzata politicamente” (si diceva allora) di quanto non succeda oggi: a quel tempo, e la distanza non è solo temporale, l’oggetto della critica dell’economia politica era non tanto il mercato autoregolantesi, quanto le spinte riformiste e socialdemocratiche che ambivano a consentire al mercato di funzionare e a evitare effetti distorcenti.
Era l’era del centro-sinistra e della programmazione, i cui policy maker venivano, da Graziani e da Lunghini, in uno storico seminario tenutosi a Pavia, tacciati di essere bricoleurs. Per chi ambisse a un riferimento bibliografico sull’avversario da “abbattere” privilegeremmo il riformismo socialista de “Il controllo dell’economia nel breve periodo” di Izzo, Pedone, Spaventa e Volpi e la visione della programmazione di Giorgio Ruffolo, piuttosto che quella capitalisticamente scontata di Ugo La Malfa.
Ma torniamo a noi. Allora le critiche muovevano, in sostanza, da tre impostazioni teoriche, profondamente differenti tra loro e, secondo un modello tipico della sinistra, profondamente sospettose l’un l’altra del dirimpettaio. Di tali correnti di pensiero ci limiteremo a citare solo i capiscuola, poiché, come Barbara Streisand cantava: “…Memories may be beautiful and yet / What's too painful to remember / we simply choose to forget”.
Un primo filone era costituito dai “marxian-strutturalisti”. Un filone composito, probabilmente prolificatosi a seguito della varietà della lettura e dell’esegesi del pensiero di Marx e della crisi della teoria del valore-lavoro, ma che, nel suo minimo comun denominatore, tendeva asintoticamente verso un nucleo comune:
a. Il capitalismo era soggetto a leggi non modificabili nella sua intima essenza: dunque le rivendicazioni salariali presentavano limiti oggettivi, dai quali prima o poi il movimento sindacale avrebbe dovuto “passare la mano” alla politica;
b. L’orizzonte temporale di riferimento non poteva essere il breve periodo della teoria keynesiana, e dunque i problemi congiunturali di disoccupazione involontaria e di carenza della domanda effettiva, quanto il lungo periodo, l’intensità e le modalità dell’ accumulazione capitalistica. Non è un caso che Claudio Napoleoni,e i suoi principali allievi, non abbiano mai avuto particolare simpatia per la macroeconomia keynesiana, e abbiano preferito teorici dell’equilibrio economico generale o studiosi strutturalisti delle politiche di sviluppo. In primis Pasquale Saraceno, che nel dopoguerra instradavano la riflessione della SVIMEZ;
c. Il problema, da queste premesse, divenivano i tempi e i modi di “ingresso nella stanza dei bottoni”, delle alleanze necessarie e delle “compatibilità da rispettare”.
Un secondo filone era costituito dall’indirizzo che coniugava il contributo di Piero Sraffa in una scettica lettura analitica di molti dei passi di Marx e le implicazioni di policy ben diverse da quelle dei marxian-strutturalisti. Garegnani e i suoi allievi, per lo più insediatisi all’università di Modena, ne declinavano le ipotesi:
i. Il capitalismo non è connotabile per alcuna legge oggettiva riguardante i limiti al conflitto distributivo: il livello del saggio di salario è determinato da condizioni storicamente determinate e dalla capacità di “resistere un minuto in più del padrone”;
ii. Un aumento del saggio di salario non determina, come per i marxiani, una caduta della domanda effettiva causa la contrazione dei profitti, ma un suo incremento tramite l’’aumento dei consumi e, dunque, dell’offerta aggregata;
iii. Una lettura del capitalismo che assolutizzasse il tema della disoccupazione involontaria muovendo da Keynes e non anche dal conflitto distributivo implicito in Sraffa costituiva una rappresentazione monca dei problemi sociali.
Infine compariva un terzo contributo, non interessato in primis parzialmente silente alla contrapposizione salario-profitto, e che tendeva al primato dell’impostazione di Keynes, opportunamente riletto:
§. La lettura riformistica di Keynes dei teorici della programmazione costituiva la versione di policy di quell’apparato, tanto popolare quanto esegeticamente erroneo, dei Premi Nobel Hicks e Modigliani che riconducevano la teoria keynesiana a caso particolare della teoria neoclassica, annullandone i contributi più originali e più innovativi;
§§. Alla base della comprensione del mercato era necessaria un’indagine sui fondamenti teorici della moneta, sul ruolo delle banche, non confinabili a meri intermediari finanziari tra i risparmiatori e gli investitori, e dunque soggetti capaci di creare liquidità, quali che fossero gli intenti delle banche centrali;
§§§. Le istituzioni di politica economica non potevano essere concepite come soggetti neutrali ma esse espletavano un ruolo fondamentale nella determinazione degli equilibri dell’economia, sull’esito del conflitto distributivo e sulla determinazione politica dei livelli di domanda aggregata. Di questo filone di pensiero Augusto Graziani ha, di certo, costituito il pensatore più acuto e analiticamente fondato.
Non c’è che dire: un dibattito che sui temi dell’autunno caldo, dell’ingresso nello Sme, della ristrutturazione dell’economia italiana, presentava scenari e contraddizioni che oggi non ci sfiorano la mente. Sembra quasi impossibile che l’accademia italiana sia passata da quelle tematiche al computo del rispetto del Patto di Stabilità o alle lagne “dentro-fuori” l’euro. Ma forse ogni tempo ha la scienza sociale che si merita.
Sarebbe interessante capire come molti dei protagonisti di allora siano divenuti i paladini del mercato oggi.
Sia pure con diversa intensità si è assistito nel tempo a una convergenza di parte di questi filoni verso la presunta modernità neoliberista.
Il filone “marxian-strutturalista” è forse quello che più “naturalmente” sfocia nel mainstream attuale, perché non si è dovuta abbandonare l’idea di una economia fisica dotata quindi di leggi non modificabili, così come identica e spasmodica è l’attenzione alla crescita piuttosto che alle contingenze, agli affanni del quotidiano vivere. C’è qualche rinuncia, anche non da poco, tipo la struttura in classi della società, tuttavia per alcuni, parafrasando Enrico il Grande, è possibile che la stanza dei bottoni valga l’accettazione dell’individualismo metodologico. E poi vuoi mettere? Quale migliore rivincita sul keynesismo sia pur difendendo follie quali la validità degli “effetti espansivi di politiche recessive”?
Il filone sraffiano è quello dal quale è sicuramente più difficile convergere verso l’odierno liberalismo. Per questo è quello che è stato più attaccato, isolato, nella guerra accademica e di conseguenza ignorato dal mondo politico. Chi ha abbandonato questo filone in modo che potesse partecipare alla gestione dell’economia, difficilmente può accettare l’idea che alla soluzione della crisi economica vi partecipa efficacemente la caduta del costo del lavoro. Può solo riconoscere che si è “resistito un minuto in meno del padrone”.
Dal terzo filone, da una parte la frammentazione solipsista di canuti e disperati eterodossi che si ostinano a leggere Keynes quale teorico dell’instabilità e non già del caso particolare dell’armonia del mercato. Una raffinata nemesi: Sono (o verrebbe disperatamente da dire “siamo”…) l’underground dell’economia, dove il loro capostipite confinava Marx, Gesell e il Maggiore Douglas. Un'altra buona parte converge, attraverso compromessi teorici continui, tipo la scontata e pervicace riproposizione della spesa pubblica quale fonte di improduttività e di compressione dei ben più fecondi investimenti privati e la insostenibilità del debito pubblico. Il compromesso in sé esclude l’abbandono totale e quindi resta la possibilità di periodici richiami alla necessità di riconsiderare presunte politiche keynesiane per uscire dalla crisi. Ma, ovvio, adelante con juicio…
I giovani economisti italiani nella stragrande maggioranza ignorano queste molteplici radici teoriche, così come non si sono creati nuovi filoni contrapposti. Per loro è bastevole osservare i dati attraverso modelli quantitativi che contengono ipotesi predeterminate la cui afferenza teorica è forse per i più ignota. In nome di un posto di ruolo si può anche stimare un esoterico quanto inutile Dynamic Stochastic General Equilibrium Model. Ovvero: meglio una sicura ostentazione di muscolo econometrico piuttosto che un defatigante lavorio sulla natura delle ipotesi interpretative da validare o da sconfessare.
(15 febbraio 2017)
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