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L’aria che tira in Turchia va oltre
quanto testimoniano i non molti giornalisti e militanti d’opposizione rimasti
fuori di galera. Dopo l’approvazione parlamentare del presidenzialismo, che non
riesce a mascherare il palese autoritarismo dovuto al controllo d’ogni potere (legislativo,
esecutivo, giudiziario) da parte del Capo di Stato, il partito di governo attende
con una certa apprensione la legittimazione democratica del voto popolare. Il
referendum è fissato per il prossimo 16 aprile, molti pronostici danno in
vantaggio l’assenso semplicemente sommando il voto degli elettori dell’Akp e,
se non di tutto, almeno d’una parte dei nazionalisti del Mhp, che si sono
prestati a sostenere i 18 emendamenti costituzionali. Più della lotta politica
interna sono lo scontro armato col Pkk e la repressione delle popolazioni kurde
del sud-est con centinaia e centinaia di vittime ad agitare gli animi, quindi gli
attentati destabilizzanti condotti da una fazione dissidente della guerriglia
kurdi (Falconi della libertà) e dall’Isis che punisce le ultime scelte di Erdoğan
spargendo sangue di civili. Per tranquillizzare una nazione ampiamente
polarizzata il presidente ha suggerito di non infiammare la campagna
referendaria. Lui stesso, incredibile a dirsi, sta tenendo un basso profilo per
cercare di recuperare anche il voto dei concittadini islamici traumatizzati dalla
lotta fratricida contro i gülenisti che ha prodotto migliaia di arresti, decine
di migliaia di licenziamenti e dismissioni fra dipendenti pubblici dei più
svariati settori: amministrazione statale e locale, scuole, polizia, uffici
giudiziari. Per perfezionare ciò che gli avversari definiscono un golpe
istituzionale Erdoğan ha bisogno d’un clima non arroventato, che leghi e
colleghi tutti i turchi che vogliono difendere patria e sicurezza, lavoro e
affari, tradizione e innovazione.
Se son veri i sondaggi che rivelano
come il 70% dei cittadini sia d’accordo a tenere in galera i deputati
d’opposizione del Partito democratico del popolo (Demirtaş ha inoltrato
richiesta di liberazione ma non ha ricevuto risposta), il referendum potrebbe
diventare un plebiscito favorevole a questo genere di presidenzialismo
autoritario. Eppure i fantasmi di una bocciatura delle urne vagano fra le fila di
deputati fidatissimi. Così Ozam Erden, onorevole dell’Akp del distretto di Manisa,
mentre interveniva a Soma (la località dove nel 2014 avvenne il disastro
minerario con 301 morti e imputazioni per gravi inadempienze sulla sicurezza
per Alp Gurkan, imprenditore e finanziatore del partito erdoğaniano), ha messo
sul piatto paure e desideri più che personali di settori del partito-regime. E
ha dichiarato che un’eventuale bocciatura del referendum porterebbe diritti a
uno scontro aperto, una sorta di guerra civile. La cosa non è piaciuta ai
vertici dell’Akp che hanno immediatamente censurato il collega. Il premier
Yıldırım ha telefonato al responsabile della provincia per far dimettere
dall’incarico quest’uomo d’apparato che dice quel che pensano molti paladini
delle maniere forti e spicce. Eppure era stato proprio Yıldırım, premier che a
breve non sarà più premier perché le modifiche costituzionali aboliscono
quest’incarico, a infiammare un po’ gli animi in un intervento pubblico. “Chi s’oppone al referendum è di fatto un
terrorista” aveva detto, un punto di partenza per stimolare Erden nel suo
desiderio di guerra civile. Il resto lo fanno il clima d’accerchiamento, la
paura di nemici interni ed esterni, che in effetti esistono, ma se capaci di
golpe, come i goffi reparti di luglio, è tutto da verificare.
Nel frattempo da mesi va di scena, quello che anche i repubblicani più morbidi definiscono un contro colpo che impaurisce anche il cittadino meno politicizzato e lo disorienta sui comportamenti da tenere. Chi vive anche nella cosmopolita Istanbul riferisce un diffondersi dell’anonimato, torna il gioco del silenzio e delle parole pronunciate a mezza bocca, come durante i regimi militari che tanti attivisti marxisti e anche islamisti hanno conosciuto a loro spese, venendo perseguitati, incarcerati, torturati, uccisi. Altri tempi ma metodi simili, soprattutto per la gente comune non implicata in appartenenze partitiche. Eppure nell’impatto ideologico che ha distinto l’attuale governo per l’azzeramento di tutte o quasi le voci libere del campo mediatico, con persecuzioni a 360°, l’ultima coinvolge l’editorialista Kadri Gürsel accusato in contemporanea d’essere sostenitore dei fethüllaçi e del Pkk (sic). Ma la martellante propaganda sulla cospirazione che “un Occidente ostile starebbe orchestrando contro la nazione turca” continua a fare proseliti, anche in ambienti laici. C’è l’idea che un fronte geopolitico voglia mettere all’angolo la Turchia del miracolo economico e ostacolarne anche la funzione guida nelle relazioni fra Oriente e Occidente. Cavalcando questo risentimento, che si ricollega all’umiliazione della caduta dell’Impero Ottomano e alle stesse magnifiche sorti e progressive della nazione kemalista, Erdoğan rilancia la sfida che fu di Atatürk, e infatti punta a festeggiare in sella il centenario del 2023. Sebbene per applicare tale disegno dovrà negoziare con un forte giocatore in Medio Oriente che è l’Iran e con la supervisione di Mosca su tutta l’area, la mossa nostalgica può portargli nell’urna ulteriori consensi kemalisti. A quel punto l’investitura popolare al suo progetto di dominio su gente e cose sarà completa.
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