contropiano
Difficile
dire per quale ragioni il Partito Democratico si avvii stancamente alla
scissione. Difficile, vogliamo dire, invidividuare ragioni
“programmatiche e ideali”, come si sente dire in questi giorni, che
distinguano effettivamente il campo renziano (molto scosso anche al
proprio interno) dai vecchi tromboni ulivisti. Ovvero da Bersani – che
rivendica ancora oggi di esser stato “l’unico ad aver fatto
liberalizzazioni” – D’Alema (che ha regalato Telecom alla cordata
guidata da Colaninno), il governatore toscano Rossi (che privatizza
l’acqua regionale violando il risultato e quindi il vincolo
referendario) e via elencando.
Sul
piano pratico, sulle cose fatte – che sono poi le uniche che si possano
giudicare in politica – l’assemblea nazionale del Pd è composta da una
folla indistinguibile di neoliberisti senza se e senza ma. Gente che ha
votato la riforma Fornero sulle pensioni, il jobs act, la “buona
scuola”, e ancor prima quel “pacchetto Treu” (1997!) che ha aperto le
dighe alla precarietà di massa, legalizzata e perenne, in questo paese. E
non basta davvero canticchiare qualche strofa di “bandiera rossa”
(peraltro epurata della parola “comunismo”), o sbrodolare qualche frase
contrita sulle “disuguaglianze intollerabili”, la “precarietà diffusa”,
“i giovani”, “i lavoratori”.
Eppure
stanno scindendosi. Matteo Renzi, come previsto, ha azzerato il finto
lavoro dei finti “pontieri” che nelle ultime ore facevan mostra di
preoccuparsi di “mantenere l’unità”, al puro scopo di conservare voti e
iscritti in una comunità disossata che reagisce automaticamente e si
affida ancora fideisticamente ai “comandi del partito” (non è un caso
che le uniche regioni in cui è prevalso il “sì” al referendum siano
proprio Toscana e Emilia Romagna).
L’ex
premier si è dimesso anche da segretario solo per poter aprire
immediatamente la fase congressuale, nel disperato tentativo di
concluderla in tempi rapidissimi e provocare quindi – subito dopo – la
caduta del governo per potersi ripresentare come candidato premier.
Stringe i tempi per ritagliarsi un partito indistinguibile dalla sua
persona, nonostante gli sconquassi delle tre ultime tornate elettorali
(regionali, amministrative e referendum).
Stupisce,
in questa macchina da guerra apparentemente inarrestabile, l’assoluta
indifferenza al fatto che la legge elettorale – dopo l’intervento della
Corte Costituzionale – non sia affatto improntata al bipartitismo obbligato col sistema maggioritario (l’ossessione
irrisolta di 25 anni di “seconda repubblica”), ma un proporzionale con
sbarramento che non garantisce l’elezione di nessun premier la sera
stessa del voto; rinviando dunque la formazione di un governo alle
trattative tra coalizioni, come ai tempi della prima repubblica.
Evidente
come il sole a mezzogiorno, le mosse renziane hanno senso solo in un
caso: puntare esplicitamente a un governo Pd-Berlusconi (con l’apporto
di qualche cortigiano comprato con qualche poltrona), dopo una campagna
elettorale fatta di finte contrapposizioni tra “centrodestra” e
“centrosinistra”.
Calcolo
peraltro rischioso, nell’attuale panorama sociale dominato dal
massiccio rifiuto popolare dell’establishment politico (anche i Cinque
Stelle potrebbero pagare caro il mesto spettacolo della giunta
capitolina), che potrebbe creare un futuro Parlamento di fatto senza una
vera maggioranza (stante anche le grosse differenze tra i modi di
eleggere le due Camere).
Eppure
vanno alla scissione. Pur consapevoli che un Pd solo renziano varrà tra
qualche mese assai meno del 25-27% oggi attribuito dai sondaggi (a
maggior ragione se dovesse imbarcare esplicitamente gente come Alfano e
Verdini). Pur scontando, la cosiddetta “vecchia guardia”, una ripartenza
da zero che non è assolutamente nelle proprie corde e abitudini (è
appena il caso di ricordare che tutti loro hanno scalato le posizioni in
un partito costruito da altri, ma non ne hanno mai costruito uno). Le
precedenti esperienze di “scissione a sinistra” (da Rifondazione in poi)
lasciano sperare al massimo in percentuali intorno al 10%, che a noi
sembrano decisamente ottimistiche.
In
ogni caso, questa scissione – fatta con le movenze di un “lungo addio”,
che concretizzerà le prime mosse con la formazione di gruppi
parlamentari autonomi, nei prossimi giorni – pone le basi per la
disgregazione dell’ultimo “partito” sopravvissuto alla grande moria del
dopo-Tangentopoli. Da allora in poi, infatti, sono avute solo formazioni
fortemente localizzate (la Lega, i post-democristiani di Mastella,
Casini, Alfano, ecc), oppure comitati elettorali più o meno larghi e
fortunati (Forza Italia) se riuniti intorno a una figura per qualche
ragione “carismatica”.
Il
panorama prossimo venturo sarà popolato di nanerottoli politici
incapaci – ognuno per contro proprio – si ergersi sopra gli altri e fare
da punti di aggregazione convincente. Specie se la partecipazione
popolare al voto dovesse accentuare la sua tendeza a diminuire.
Uno
spappolamento del sistema politico destinato al massimo a fornire i
mattoni per un qualsiasi governo di obbedienza assoluta alla Troika.
Zero idee, zero ideali, zero programmi, pura comunicazione. Come si vede
già ora nel Pd.
Non
ci sfugge che questa scissione produrrà i suoi effetti più vistosi –
nel suo piccolo, ovvio – sull’arcipelago di disperati che usa
autodefinirsi “sinistra”. In questa area i “programmi” sono stati
dimenticati da un pezzo (se ne parla a ridosso delle elezioni, ma solo
per darsi un tono), la dinamica dei “contenitori” assemblati alla meno
peggio ha sostituito da quasi 30 anni qualsiasi altra prospettiva
razionale. Si può scommettere che il giorno in cui verrà formalizzata la
“nuova formazione di sinistra” si metterà in moto una fibrillazione
irrefrenabile per ”creare un contenitore più largo”, dai contorni ancora
più vaghi, assolutamente indigeribile per il nostro “blocco sociale”,
già da tempo sordo a ogni richiamo di questo tipo.
Non è il caso di farsi distrarre. Questa roba è morta prima di iniziare a vivere.
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