contropiano
Siamo
nati tra gli anni ‘80 e gli anni ’90. Alla nostra generazione è stato
fatto un regalo – così almeno ci dicono: un’idea, un ideale,
un’opportunità che come un fratello maggiore inizia a camminare con noi,
a formarsi con noi, a capire il mondo con noi. Un fratello grande da
cui imparare, a cui rivolgersi nel momento del bisogno e delle scelte.
Il fratello Erasmus.
Qualcosa
però è andato storto, o chissà non è mai stato come ci hanno
raccontato. Il fratello buono forse è solo un venditore d’aria. Ci ha
truffato tutti e vorrebbe continuare a farlo.
Ora però siamo diventati grandi e non ci facciamo più fregare.
La
generazione Erasmus tanto millantata nelle aule universitarie, nelle
conferenze governative, nei discorsi dei Magnifici Rettori italiani ed
europei, si rompe nello scontro col piano del reale. Perché se abbiamo
tutti in famiglia almeno un giovane universitario che chiede la borsa di
studio per il progetto di mobilità europeo, abbiamo anche troppi esempi
di genitori che perdono il lavoro, fratelli costretti a lavorare in
nero o a voucher, sorelle obbligate a firmare dimissioni in bianco, o
contratti a chiamata, senza diritti o con pochi diritti e comunque non
lamentarti perché almeno hai un lavoro. Quindi o ti lasci sfruttare o
vai via dall’Italia o ti ammazzi. Semplice e lineare.
Oppure,
e questo è il punto, credi in te stesso, ti laurei prima degli altri,
con voti più alti degli altri, contatti prima degli altri più
professori, mandi curriculum come tutti gli altri e come gli altri speri
di fregarli tutti, li lasci indietro, gli altri, perché tu sei migliore
e ce la puoi fare e se poi ce la fai sarà perché tu non sei come gli
altri, sei migliore degli altri, più adattabile, più creativo, più
avanguardista, più unico degli altri. E ce l’hai fatta. Non te ne sei
reso conto, ma hai vinto la tua guerra tra poveri.
Ora che però siamo diventati grandi abbiamo qualche argomento da contrapporre; non al progetto Erasmus in sé, ma contro il sistemaErasmus.
Primo
punto: in un contesto di crisi generale, che vede un’intera generazione
penalizzata da precarietà diffusa, incertezza esistenziale e massacro
sociale, l’accesso all’università risulta sempre più difficile -negli
ultimi dieci anni si registra un calo di 66.000 iscritti – provocando
una dequalificazione complessiva del lavoro in Italia.
Secondo
punto: la mobilità dello studente e del lavoratore non può voler dire
mobilità imposta. Sembra quasi che vi sia “un’educazione al movimento”,
al potersi e doversi muovere all’interno di confini non più strettamente
nazionali: un adattamento del singolo funzionale allo studio e poi,
ovvio, al mercato del lavoro. Ci spieghiamo meglio: scegliere di fare un
soggiorno all’estero per fare esperienza o coltivare le passioni (anche
professionali, ovvio) è ben diverso dall’essere costretti a emigrare in
cerca di un lavoro, perché qui di opportunità non ce n’è, perché qui
c’è solo sfruttamento, briciole e poco più. Non c’è da stupirsi quindi
se il fenomeno dell’emigrazione forzata dei giovani verso lidi
più felici abbia assunto dimensioni preoccupanti, e non possa più
mascherarsi dietro alla favola dell’emigrazione temporanea per volontà.
Terzo
punto: lo 0,4% dei giovani italiani partecipa ogni anno all’ormai
consolidato programma Erasmus; la disoccupazione giovanile supera il
40%. Con queste cifre non serve dire altro.
Se
Erasmus è il nome della nostra generazione nei telegiornali, Working
Poor è il nome che troverete nella realtà. Buon compleanno progetto
Erasmus, noi però ancora non sappiamo che pesci pigliare (dopo aver
fatto l’Erasmus, ovvio).
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