Fonte:
il manifestoAutore:
Vincenzo Scalia
Il rapporto osmotico tra attività legali e illegali è l’esito voluto dalle politiche di deregulation
La finanza costituisce uno dei pilastri del capitalismo
contemporaneo. Oltre a modificare l’insieme dell’economie nazionali e
internazionale, modifica la composizione sociale della forza-lavoro e
«produce» un aumento della disoccupazione. L’infulenza della finanza si
avverte anche a livello politico: la caduta del governo Berlusconi in
Italia, la crisi greca, ne sono gli esempi più recenti. Infine, gli
scandali che hanno coinvolto le banche italiane, il caso Enron, i Panama
papers, la recessione del 2008, hanno stimolato studiosi, politici e
una fetta sempre più consistente dell’opinione pubblica ad interrogarsi
sulla possibilità di controllare la finanzia, o, quantomeno, di
incanalarla a fini sociali. Gabriel Zucman, nel suo ultimo lavoro, La ricchezza nascosta delle nazioni
(Add Editore, pp.140, euro 15), risponde affermativamente.
Partendo dal
presupposto che la finanza globale si basa sul drenaggio di ricchezza
prodotta e consumata a livello locale, lo studioso francese realizza una
genealogia dei paradisi fiscali.
Zucman ci mostra come i processi di elusione e di evasione fiscale
attraverso la finanza offshore non siano la conseguenza di processi
economici naturali. Ci troviamo piuttosto davanti alla polarità tra
accumulazione privata del capitale e processi di redistribuzione
collettiva della ricchezza. La storia dei paradisi fiscali inizia dopo
la prima Guerra mondiale, in risposta ad un crescenti controllo
dell’economia in seguito alla crisi del 1929 e culminato con
l’affermazione del Welfare State. È la Svizzera a fungere da sponda ai
capitali in fuga, principalmente dai Paesi transfrontalieri come
Francia, Italia e Germania. Il basso tasso di interesse corrisposto
dalle banche elvetiche viene controbilanciato dalla possibilità di
usufruire del segreto bancario, nonché di potere effettuare, dal rifugio
svizzero, investimenti lucrativi sul piano internazionale.
GLI ISTITUTI BANCARI della Confederazione hanno
infatti offerto un ampio ventaglio di servizi, che hanno e spesso
tutt’ora dirottano i capitali esportati verso un’ampia gamma di
investimenti (dai titoli azionari alle opera d’arte). L’impatto della
deregulation e della globalizzazione e la nascita di nuovi paradisi
fiscali come le isole caraibiche, Jersey, e Guernsey arrecano un danno
solamente marginale alle banche svizzere. Poche le conseguente anche
delle misure volte a tassare i capitali esportati o ad abolire il
segreto bancario per i conti individuali.
Qui troviamo il secondo punto di forza dello studio di Zucman. Le
misure di contenimento si rivelano fallaci, poiché la legislazione vale
per i conti individuali e non per le imprese. Inoltre, la proliferazione
dei nuovi paradisi fiscali non toglie niente alla forza delle banche
elvetiche, che rimangono intatte nel loro ruolo di primo piano
all’interno del trasferimento e del riciclaggio dei capitali. In altre
parole dal libro di Zucman trapela come la delocalizzazione,
caratteristica del capitalismo contemporaneo, sia penetrata in
profondità anche all’interno delle transizioni bancarie. Gli operatori
finanziari elvetici cessano di essere i depositari del processo di
esportazione dei capitali, per trasformarsi nel punto nodale della rete
delle volatilità finanziarie.
DIETRO LA MAGGIORANZA di imprese finanziarie e
banche delle Isole Vergini e del Lussemburgo, vi si trova un istituto
con sede a Zurigo o a Ginevra. Il capitale descritto e analizzato da
Zucman si mostra vitale, dinamico, capace di calibrare le misure adatte
alle proprie esigenze di riproduzione al di fuori e al di sopra delle
dinamiche sociali.
La vitalità del capitale globale finisce dunque per costituire un
problema al momento in cui i paradisi fiscali movimentano una somma pari
all’8% dell’economia mondiale. Chi sposta la ricchezza da dove è stata
prodotta, infatti, mette a repentaglio il principio di equità fiscale,
sul quale poggia la legittimità degli Stati contemporanei. Ne consegue
un aumento della divaricazione sociale. Non è casuale che tra i
principali elusori ed evasori troviamo gli oligarchi russi e africani,
ma soprattutto, le majors dell’economia della conoscenza (da Apple a
Google, solo per citare le imprese sotto i riflettori dei media e
dell’Unione europea per quanto riguarda l’elusione fiscale).
Una soluzione a tutto ciò esiste, e questo rappresenta il terzo punto
di forza del libro di Zucman. Bisognerebbe, scrive lo studioso
francese, approntare tre misure; la prima consiste nel creare un catasto
delle ricchezze finanziarie mondiali, che in realtà esiste già, solo
che è in mano ai privati. Un catasto sovranazionale, affidato ad
autorità con prerogative statali. In secondo luogo, una tassazione delle
ricchezze investite fuori dal contesto produttivo in cui sono state
generate; in altre parole, le majors dichiarano solo i profitti
realizzati a livello nazionale, mentre i cespiti andrebbero realizzati a
livello globale. Infine, bisognerebbe abolire il segreto bancario anche
per le società, e procedere alla redistribuzione della ricchezza in
proporzione ai luoghi in cui è stata prodotta.
Zucman, però, affronta soltanto marginalmente il ruolo dell’economia
illegale e delle condotte illecite, che invece costituiscono gli snodi
principali dell’ultimo libro di Vincenzo Ruggiero, Dirty Money. On Financial Delinquency
(Oxford University Press, pp. 250). Da questo lavoro trapela una
critica articolata, ancorché pessimista, delle dinamiche relative
all’interazione tra economie sporche, economie lecite e scandali
finanziari.
LA SECOLARIZZAZIONE del denaro nella cultura
contemporanea, nota Ruggiero, produce uno slittamento significativo
nella lettura delle crisi e degli scandali finanziari. Nel passato la
concezione paleocristiana del denaro come sterco del demonio costituiva
una maschera ideologica efficace per l’affermazione del capitalismo, con
truffe e frodi derubricate ad aberrazioni di un sistema altrimenti
fondato sulla produzione, la parsimonia e la libera iniziativa. Ad
un’iniziale stigmatizzazione di individui corrotti e corruttori è
seguita l’analisi dei reati finanziari come il prodotto della
disfunzione di specifici segmenti del sistema, tra cui va compresa anche
la criminalità organizzata. Le narrazioni odierne rappresentano crisi,
scandali e inflitrazioni criminali come il prodotto dell’ineluttabilità
del mercato; come episodi da rimuovere e centrifugare in una dinamica
capitalistica volta alla massimizzazione dei profitti e all’espansione.
All’interno di questo processo, economie legali e illegali si
combinano osmoticamente, rendendo (quasi) del tutto superflua ogni
velleità regolativa. Ruggiero mette in evidenza tre elementi cardine di
questa dinamica.
Il primo, riguarda la tipologia delle reti criminali. Non ci troviamo
di fronte a legami rigidi e sistematizzati. I rapporti tra attori
legali e illegali sono fluidi, sfumati, funzionali allo scopo. La rete
del riciclaggio, ad esempio, comprende una pluralità di attori:
politici, avvocati, commercialisti, titolari delle attività del
riciclaggio, membri delle organizzazioni criminali. Una rete opaca che
non viene necessariamente riproposta una volta che l’obbiettivo attorno
al quale si è sviluppata è stato raggiunto. Di conseguenza, risalire
alla catena criminale e intervenire su di essa è alquanto arduo.
In secondo luogo, qualora si volessero regolamentare i paradisi
fiscali, si andrebbe incontro a quello che Ruggiero definisce effetto
palloncino, ovvero la tendenza di un fenomeno ad espandersi da un’altra
parte dopo che ha subito una contrazione. In altre parole, la
regolamentazione dei paradisi fiscali esistenti non farebbe altro che
produrre la creazione di altri luoghi analoghi e il conseguente
riposizionamento dei capitali. Inoltre, le regolamentazioni finanziarie
sono raramente vincolanti, quindi non applicabili e sicuramente
aggirabili.
IL TERZO ELEMENTO evidenziato da Ruggiero riguarda
la sfera morale. La regolamentazione sarebbe possibile qualora tra gli
operatori di mercato prevalesse una moralità orientata alla
cooperazione. Negli ultimi anni, al contrario, si è affermata nei
mercati una logica di tipo «matematico», che si è poi diffusa su tutto
il corpo sociale. Alla base di questa concezione troviamo l’idea del
calcolo dei costi e dei benefici in funzione dei profitti individuali. È
proprio l’ipostatizzazione di questa logica a costituire l’ostacolo più
grande al controllo della finanza, in quanto crea un meccanismo di
legittimazione reciproca, che giustifica le violazioni più vistose in
cambio di un certo livello di tolleranza verso quelle minori. In altre
parole, l’egemonia diffusa dell’idea di profitto crea una condizione di
alienazione generalizzata, per cui la società si dissolve nel proprio
oggetto dei desideri. Più che creare nuove regole, bisogna rileggere il
moro di Treviri.
Nessun commento:
Posta un commento