Anticipiamo un brano dal nuovo libro di
Gustavo Zagrebelsky, Diritti per forza ( Einaudi, pagg. 144, euro 12).
Il volume sarà in libreria da domani. Pubblicato in accordo con Reiser Literary Agency
LE GENERAZIONI future hanno fatto il loro
ingresso nel dibattito pubblico. Ciò, perché la condizione dei viventi è
oggi inedita. La Terra (intesa come ambiente fisico e sociale), per
millenni, si è pacificamente considerata la base di perpetua
riproducibilità nel tempo della vita degli esseri umani, quali che
fossero le offese che i suoi figli potevano infliggerle. Oggi non è più
così. Le odierne capacità distruttive, di gran lunga superiori alle
capacità rigenerative delle risorse della natura fisica e dei legami
sociali, fanno dubitare circa la sensatezza della formula di Thomas
Jefferson al tempo della Rivoluzione americana: «La terra appartiene ai
viventi». Era, in origine, una formula polemica verso un passato
opprimente, che esprimeva l’ansia di liberazione da un peso, per
permettere l’espansione della creatività della generazione attuale.
Inquinamenti, risorse dissipate. Distruggendo la Terra, rompiamo un patto fra generazioni
Oggi, quella formula significherebbe cecità di
fronte alle esigenze di futuro. Un tempo ci si poteva concedere il lusso
d’essere ciechi; non più oggi. Le capacità di consumo e di distruzione
delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto
dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse
comuni, sono tali da minacciare la riproduzione della vita. (…) Il
discorso sui «diritti delle generazioni future» è un tentativo, se non
di colmare la distanza, almeno di tematizzare la minaccia incombente su
un pianeta le cui forze vitali, lo stock energetico e le sue capacità di
rinnovamento sono in declino, insidia
te da un consumo quantitativo e qualitativo
crescente. È stato detto che per millenni la Terra si è presa cura dei
suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano; oggi —
segno di senescenza del nostro habitat — sono i figli a doversi
prendere cura della loro madre-Terra.
Le buone intenzioni si scontrano e soccombono
di fronte agli interessi immediati. Le «generazioni future» chiedono
moderazione nell’uso delle risorse alla generazione presente e dunque
propongono un conflitto tra ciò che esiste e ciò che non esiste,
appartenendo esse, per l’appunto, al mondo che deve ancora venire e
nemmeno è certo che verrà. Così, gli inquinamenti, la produzione di
anidride carbonica e di sostanze chimiche letali, la distruzione delle
risorse ambientali ed energetiche, la tecnologia non solo di vita ma
anche di morte, i mezzi di riduzione dell’autonomia personale procedono
senza sosta per la forza della realtà, malgrado gli allarmi sempre
crescenti e per lo più impotenti. Ciò fa temere che vi sia
un’incoercibile forza interna al sistema di relazioni economiche e
sociali entro il quale viviamo, una forza a sua volta nemica dei nostri
figli e dei figli dei nostri figli.
Le questioni così sollevate interpellano la
nostra stessa visione costituzionale della vita. Il costituzionalismo
può ignorarle? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion
d’essere sono la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la
risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino alle soglie del
tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione
compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che,
se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era
peggiorato fino a comprometterlo. Il costituzionalismo non ha avuto,
fino agli anni recenti, ragioni per preoccuparsi delle prevaricazioni
intergenerazionali. Ma, molti motivi ne ha oggi, e drammatici.
Per quale ragione la cerchia de «i tutti» che
hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi
e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per
rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani
hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro
dignità, quale che sia il loro momento. Al tempo nostro, le parole di
Thomas Jefferson dovrebbero essere sostituite con «la Terra appartiene
ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». «La
Terra appartiene ai viventi», invece, spezza ogni legame di debito e
credito tra ogni generazione e autorizza ciascuna di esse a sfruttare
«la Terra» fino in fondo. Oggi sappiamo che, se fosse davvero così,
correremmo il rischio di non poter parlare di «ogni generazione». In tal
modo, il discorso sulle generazioni future ristabilisce il legame di
debiti e crediti che per secoli si teorizzava esistere tra viventi e non
viventi, cambiando però direzione: per secoli, i figli sono stati
considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono
sentire debitori nei confronti dei figli.
I diritti di credito dei figli nei confronti
dei padri possono essere considerati il risvolto al futuro di quello che
Hans Jonas, in un testo fondativo di questa tematica, Il principio
responsabilità, ha considerato essere la pretesa, fondamentale quanto
altra mai, dei nostri successori di trovare un mondo in condizioni
almeno non peggiori di quelle che noi stessi abbiamo trovato. È sua la
formulazione del cosiddetto «imperativo ecologico»: «Agisci in modo che
le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di
un’autentica vita umana sulla terra». Questa norma etica fondamentale
rappresenta un’estensione nel tempo a venire dell’imperativo kantiano
circa la necessaria idoneità a valere in generale della massima, cioè
del criterio, d’ogni azione morale. Tale imperativo, nella versione di
Kant, contiene un nucleo totalizzante, incompatibile con la pluralità
degli universi culturali che caratterizzano le società umane. È un
«imperativo imperialistico » e, come tale, svolse la sua funzione nel
tempo dell’Europa-centro-del-mondo. Può funzionare senza minaccia
d’intolleranza solo quando tutti si riconoscano pacificamente nel
medesimo universo etico. Altrimenti, esso contiene una implicita, seppur
inespressa, valenza aggressiva, colonizzatrice. Ma, l’anzidetto
imperativo ecologico sfugge a tale difficoltà, in quanto si basa su un
principio universale che non può non unire tutti gli esseri viventi:
possiamo sì mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella
dell’umanità; (…) Achille aveva sì il diritto di scegliereper sé una
vita breve di imprese gloriose piuttosto che una lunga vita di sicurezza
oscura (…); ma (…) noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo
rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere
di quelle attuali.Perché non abbiamo questo diritto e perché abbiamo
invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora né «in sé» ha
bisogno di esistere, e comunque in quanto non esistente non ne avanza la
pretesa? Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi
perché. Jonas suggerisce il dubbio che sia impossibile senza la fede in
una religione, quantomeno nel senso della religiosità di un Thomas Mann,
dichiarata in una lettera al filologo e studioso del mito Károly Kerény
: religione «come contrapposizione alla trascuratezza e all’incuria,
religione come attenzione, ponderazione, riflessione, coscienziosità,
contegno prudente e sollecito, perfino come metus e, per finire, attenta
sensibilità verso i moti dello spirito universale».
Tuttavia, a onta delle difficoltà, chi oserebbe
proclamare un assioma contrario, cioè che qualcuno abbia, o che tutti
insieme abbiamo il diritto di distruggere il mondo o di preparare per i
nostri posteri una condizione di vita disumana in vista dell’egoismo
della generazione alla quale apparteniamo o, ancor peggio, in vista
dell’egoismo dei potenti che godono della loro potenza nella generazione
alla quale appartengono?
Sarebbe, questa, una massima generalizzabile?
Non c’è alcuna ragione per restringere alla sola contemporaneità il
criterio morale di giustizia di cui parla la massima kantiana.
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