Germania, dopo la rottura con il Partito della Sinistra (Die Linke), Sahra Wagenknecht ha intrapreso un proprio percorso politico che l’ha portata a dare vita a un’associazione e poi, nel gennaio di quest’anno, a un partito vero e proprio: il BSW che sta per “Bündnis Sahra Wagenknecht” (“Coalizione Sahra Wagenknecht”).
transform-italia.it Nicoletta Pirotta
Con questo partito si è presentata alle elezioni regionali in Turingia e in Sassonia e lo scorso settembre in Brandeburgo piazzandosi al terzo posto in tutti e tre le regioni, rispettivamente con il 15,8, l’11,8 e il 13,5% dei voti. Voti raccolti soprattutto nelle periferie e nei quartieri popolari.
Per dare conto dei fondamenti teorici di un partito, in grado fin dalla sua fondazione, di ottenere non pochi consensi, Wagenknecht ha scritto un libro pubblicato anche in Italia, con la prefazione di Vladimiro Giacché, dal titolo Contro la sinistra neoliberale.
Su di lei si è detto tutto e il contrario di tutto, anche nel nostro Paese.
Già questo fatto mi ha incuriosito perché quando i pareri divergono così profondamente vuole dire che un po’ di ciccia c’è. Ma il motivo per cui ho voluto leggere il libro di Wagenknecht è un altro.
Esso ha a che vedere con lo spaesamento e l’impotenza che provo nel constatare, contemporaneamente, l’avanzata, non solo sul piano politico, di una destra sempre più aggressiva e la mancanza di alternative condivise capaci non tanto di modificare i rapporti di forza ma nemmeno di fare da argine a questa avanzata.
Questo è vero particolarmente in Italia vista la mancanza di un soggetto politico in grado di rappresentare un punto di vista alternativo al neoliberismo, autonomo ma al contempo non autoreferenziale. L’ultima esperienza politica che ha avuto un senso in tale prospettiva era stata Rifondazione Comunista almeno fino al 2008. Ho partecipato con slancio e convinzione a questo percorso che poi, però, mi ha lasciata orfana di una “rifondazione” mai compiuta fino in fondo.
Dopo di allora è stato un susseguirsi di esperienze politiche spesso generose ma fallimentari non in grado di promuovere consenso se non in una cerchia sempre più ristretta di persone, la migliore delle quali è stata ALBA, l’Alleanza per il Lavoro, i Beni Comuni e l’Ambiente, che avevo contribuito a far nascere con donne e uomini di buona volontà, in particolare l’indimenticabile Paul Ginsborg, ma che poi non è stata capace di costruire un vero e proprio progetto politico portando a sintesi le differenze che la attraversavano.
Ho voluto quindi leggere il libro di Sara Wagenknecht per capire con quali idee di fondo sia riuscita a dare vita a un partito che, sulla base dei risultati sin qui ottenuti, potrebbe essere considerato non un semplice, effimero, espediente elettorale, ma un soggetto politico capace di collocarsi dentro un pezzo di storia della sinistra tedesca costruendo legami territoriali non occasionali. Se, come sembra, la Germania, travolta da un’economia in difficoltà e una crisi politica nella maggioranza che governa il Paese, andrà al voto fra qualche mese, avremo modo di verificarlo.
Alcuni paragonano, non saprei dire quanto opportunamente, questa formazione politica tedesca a quella della France Insoumise di Melenchon. In effetti alcuni aspetti le accomunano: una genesi interna alla crisi dei partiti della sinistra tradizionale, la capacità di raccogliere consensi in ambienti sociali e locali lontani dal mainstream, la presenza di un leader, nel caso tedesco di una leader, riconosciuti. Vi è da dire però che in Francia abbiamo assistito a grandi mobilitazioni sociali, l’ultima delle quali sull’aumento dell’età pensionabile ma penso altresì, con tutte le cautele del caso, ai “gilets jaunes” , movimenti che hanno reso evidente la presenza una reale opposizione sociale senza la quale è difficile per un partito che vuole collocarsi a sinistra trovare un ancoraggio materiale per provare a cambiare le carte in tavola.
Venendo al libro, quel che ho apprezzato è la sincerità, che mi è sembrata genuina, sulla natura e sulla funzione del nuovo partito. Nulla di rivoluzionario ma un rifarsi, in qualche misura, all’idea socialdemocratica di qualche decennio fa.
Scrive Wagenknecht “questo libro perora la causa di una sinistra liberale e tollerante. (…) quel che si vuole creare è un partito politico con un programma fondato su valori orientati alla comunità come progetto progressivo per il futuro (…), che respinga sessismo, omofobia, sfruttamento ed esprima valori condivisi che sono essenziali per la coesione, la giustizia, la sicurezza, la parità sociale”.
Discutibili ma interessanti, a questo fine, alcune delle proposte che vengono avanzate e che riguardano un nuovo concetto di proprietà che impedisca le grandi concentrazioni economiche, un ritorno allo Stato nazionale che possa garantire e rendere esigibili quei diritti sociali oggi frammentati o dispersi, l’introduzione di alcuni strumenti, che potrebbero rivitalizzare una democrazia rappresentativa in declino, quale per esempio la costituzione di una Camera alta, formata da cittadini estratti a sorte, che sia componente stabile del sistema democratico.
Molto condivisibile e da sottolineare la sua contrarietà alla guerra, alle logiche militari e alle politiche che favoriscono la produzione e il commercio di armi.
Wagenknecht critica duramente l’odierna sinistra che chiama “sinistra alla moda o neoliberale”, “il neoliberismo progressista” secondo la definizione della filosofa politica statunitense Nancy Fraser, che, assecondando l’etica individualista e le politiche neoliberiste del capitalismo degli ultimi decenni, è finita per diventarne succube o “ancella” non rappresentando più nessuna alternativa concreta. Anche quando la “sinistra neoliberale” ha avuto l’occasione di governare, ha sostenuto politiche di restringimento dei diritti del lavoro e dello smantellamento dello stato sociale, fino ad arrivare al sostegno alle politiche di guerra.
L’effetto più deleterio è stato quello, sintetizzando brutalmente, di dare più importanza al tema delle differenze individuali rispetto a quelli dell’eguaglianza sostanziale lasciando orfani quei ceti popolari che, al contrario, aveva storicamente voluto rappresentare. Il ceto operaio è pressoché scomparso dall’orizzonte della “sinistra alla moda” con il risultato di buttare alle ortiche la nozione di “classe”. A quel punto, la mendace narrazione delle destre contro le “élite” di varia natura e a favore del “popolo” è divenuta, per quei ceti, il solo riferimento politico.
È dunque sulla riproposizione del concetto di “classe” ciò su cui Wagenknecht vuole costruire il nuovo soggetto politico?
Leggendo il libro non sembra proprio.
Intanto perché manca, credo volutamente, un ragionamento sulla “natura” odierna delle classi sociali la cui composizione è stata modificata significativamente dal capitalismo neoliberista.
Una modifica che si è fondata, non solo ma particolarmente, sulla “femminilizzazione” e sulla “razializzazione” del lavoro, due processi che, attraverso l’utilizzo di soggettività, la manodopera femminile e quella migrante, da sempre abituate o costrette a condizioni di lavoro non stabili né garantite, hanno consentito la precarizzazione globale del lavoro e la frammentazione della classe lavoratrice.
E nemmeno viene fatto un ragionamento, alla luce di queste modifiche, sul concetto stesso di classe. Scrive la sociologa Sara Farris :“la classe è una relazione sociale di interdipendenza e antagonismo che unisce uomini e donne accomunati dalla loro dipendenza dal salario e, al contempo, una relazione di oppressione che può mettere l’una contro l’altra le persone della stessa classe”.
La classe cioè non è un entità astratta ma definisce la posizione specifica, la soggettività sociale potrei dire, di una persona e, proprio per questo, è attraversata da linee divisive, differenti ma intersecate fra loro, che hanno a che vedere con il genere, la razza e l’orientamento sessuale. Non a caso su queste linee divisive si sono costruiti sistemi di potere (il patriarcato, il razzismo, il colonialismo) che non possono essere considerati “sovrastruttura” se si vuole costruire una forza politica capace di rappresentare, nel presente, un’alternativa di società.
Se si affrontasse il tema della “classe” il ragionamento conseguente sarebbe quello di costruire, sul piano politico e sociale, una comune coscienza ed un comune agire anticapitalista fra chi vive una condizione di sfruttamento. Uno sfruttamento che, intersecandone le differenti forme, il capitalismo riproduce secondo le proprie esigenze.
Al contrario per Wagenknecht non è “la classe” quanto “la comunità” a consentire un’azione, politicamente organizzata, capace di contrastare il sistema capitalista.
Sta proprio nel concetto di “comunità” il cuore del suo pensiero.
Nello spiegare il senso di comunità si ricorre alla “filosofia dell’appartenenza” cioè al sentimento d’identificazione di una persona con un gruppo o un luogo particolare. Un’appartenenza che implica la creazione di legami sociali, affettivi, emotivi capaci di produrre atteggiamenti positivi che favoriscono la coesione sociale.
Si sottolinea altresì l’importanza dell’ethos (abitudini, usanze, costumi) che, al contrario di un individualismo cosmopolita che ha dissolto e frantumato i vincoli locali, rafforza i legami, la cooperazione, il riconoscimento dei beni comuni, il desiderio di impegnarsi per avere uno Stato che garantisca sicurezza e stabilità invece di abbandonare i propri cittadini alle incertezze del mercato globalizzato. Reciprocità di relazioni sociali, armonia fra diritti e doveri, cooperazione, affidabilità, riservatezza, moderazione questi dovrebbero essere i tratti che definiscono il concetto di “comunità”.
Ora è indubbio che sul piano psicologico un sentimento di identificazione e di attaccamento a un gruppo o a un luogo promuova uno stato di benessere non solo individuale, specie in un momento storico come quello attuale. Così come è veritiero il fatto che l’identità individuale derivi dal legame sociale che sostiene il riconoscimento di sé e degli altri.
Al contempo però, restando sempre su un piano psicologico, gli effetti dell’appartenenza possono avere aspetti anche molto negativi, quando creano stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni, semplicismi culturali, spesso anche barriere. Dove nascono sfruttamento, sessismo, omofobia, razzismo se non all’interno della “comunità”?In un passaggio del libro è la stessa autrice che ne riconosce, in parte, le insidie quando afferma che tradizioni, usanze, abitudini hanno quasi sempre contribuito a stabilizzare rapporti di potere spesso asimmetrici ed escludenti.
Non è su un piano psicologico, ovviamente, che Wagenknecht utilizza il concetto di appartenenza e di “comunità”, benché farebbe bene a non sottovalutarlo.
Il suo intento ha dimensione politica nel senso che la “comunità”, che viene proposta e considerata potenzialmente in grado di rappresentare un’alternativa, è quella formata, localmente, dai ceti che, in misura differente, hanno subito maggior disagio dai processi prodotti dal capitalismo globalizzato: lavoratrici e lavoratori dipendenti, working poor e ceti impoveriti, piccoli o medi imprenditori. Un “interclassismo”, così parrebbe, governato da un rinnovato intervento dello Stato capace di porre un freno, o meglio di regolare l’economia di mercato impedendone la voracità.
Come tutto ciò possa essere agito, all’interno delle contraddizioni intercapitalistiche dell’oggi e in mancanza di un’alternativa di sistema, senza prevedere, sul piano sociale e politico, un positivo conflitto che provi a trasformare l’esistente non è contemplato nel suo ragionamento.
Ed è proprio questa mancanza che più di ogni altra mi rende perplessa sul progetto politico di Wagenknecht: si può pensare, in questo frangente storico, di riformare il sistema senza modificare radicalmente il nostro modo di stare al mondo?
In ogni caso la proposta politica di Wagenknecht ha il merito della chiarezza e insieme della concretezza benché bypassi alcune questioni di fondo, il concetto di classe e il conflitto in primis, che ritengo ineludibili se si vuole davvero cambiare strada.
Se in Italia ci fosse la possibilità di discutere in modo approfondito e al di fuori di una polarizzazione che favorisce gli schieramenti piuttosto che i contenuti, sarebbe davvero interessante poterne ragionare collettivamente.
Nessun commento:
Posta un commento