domenica 8 settembre 2024

Putin e la psicosi americana

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Hanno fatto notizia le parole di Putin al Forum economico dell’Est che si è tenuto nei giorni scorsi a Vladivostok: il fatto che egli abbia detto a margine dell’incontro di tifare per Kamala Harris è risultato del tutto inatteso per le orecchie occidentali. Tuttavia l’ironica dichiarazione era assolutamente prevedibile nel momento in cui contro Trump si sta cercando di mettere in piedi un nuovo Russiagate, come se il potere grigio fosse un ruminante che continuamente rimastica le sue vecchie bugie cercando di ricavarne il massimo. In realtà mostrando favore verso un candidato palesemente non all’altezza del compito al quale concorre, che esprime una serie di simil valori del tutto differenti da quelli russi e criticando Trump per le sanzioni poste a suo tempo contro la Russia, Putin ha voluto dire tutt’altra cosa: ovvero che la scelta dell’inquilino della Casa Bianca è tutto sommato abbastanza irrilevante rispetto alla scelta tra pace e guerra. Che l’esplosivo del conflitto è innescato grazie allla mina vagante Zelensky.

Egli ha inteso mettere in rilievo – questo lo si può facilmente dedurre da molti discorsi tenuti nel corso di un anno – che l’impero americano è in fase di inevitabile quanto rapido declino, il che si scontra in maniera esistenziale contro il mito che l’America ha di se stessa. Si trova insomma in una condizione di piscosi paranoica nella quale la tentazione di dare fuoco alle polveri si fa sempre più forte. Se questo ancora non è avvenuto è solo grazie alla potenza di Russia e Cina che ovviamente spaventano il guappo planetario il quale si accorge di essere rimasto indietro mentre lucidava le sue armi e le esponeva per essere sicuro che tutti capissero l’antifona. È vero, data questa cornice Trump o Kamala significano poco dal punto di vista dello scoppio di una guerra mondiale, sia per la scarsa statura che hanno, sia per la cultura di base dell’eccezionalismo. Certo, mentre Kamala è il nulla fatto persona ed è strettamente legata, per via di partito, alle principali corporation del complesso militare che finiscono per determinare gran parte della politica estera statunitense, almeno Trump potrebbe avere uno spirito pragmatico con il quale fare i conti, oltre ad essere esponente di una corrente neoliberista avversa ai deliri pseudo ideologici e autoritari di questi anni.

Ma nessuno è davvero in grado di conciliare il declino di fatto con le ossessive ambizioni di comando universale: come contenere la paranoia di chi vorrebbe annientare la Cina solo perché ha un’economia più vivace degli Usa? La schizofrenia di chi parla di inclusività e poi fornisce le armi per i piani genocidi di Netanyahu a Gaza? Oppure lo stato di depressione conseguente alla possibilità che il pianeta si liberi dalla schiavitù del dollaro? Gli Usa ormai non capiscono più il mondo che li circonda e non capiscono nemmeno se stessi: questa condizione ha solo due possibili esiti o una guerra esterna o una guerra interna.

La situazione è diversa, ma non estranea anche alle colonie europee che per troppo tempo sono vissute di riflesso e hanno in qualche maniera introiettato la malattia americana: si pensi solo all’annuncio della Volkswagen di chiudere gli stabilimenti di fatto uccisi dalle scelte scellerate fatte dal governo di Berlino per compiacere Washington. Anche in questo caso la realtà si scontra senza mediazioni con gli ideologismi espressi dai burattini di governo, ma non sembra esserci una soluzione a portata di mano. Si vive nell’assurdo di un milieu mediatico – politico tedesco che accusa l’Afd di essere una riedizione del nazismo mentre Berlino è scesa in campo contro la Russia e in appoggio a un regime nazisteggiante. Cosa può mai uscire da questo miscuglio di infingimenti e di follia? Ma la Germania, così come gli altri Paesi europei, ha teoricamente una terza via tra rivolte interne e sconfitte esterne: liberarsi del padrone e dunque anche della sua psicosi.

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