Sentire il ministro Tajani dire, con il tono benevolo e compiaciuto di chi sta per concedere un grande favore, che un bambino nato qui, dopo avere frequentato per dieci anni (e ribadisce “dieci”) la scuola, dopo avere dimostrato di conoscere bene la Costituzione e di condividere i nostri valori, ha diritto alla cittadinanza è un’esperienza surreale.
(Marco Aime, antropologo – editorialedomani.it)
Anche perché un attimo dopo si schiera nettamente a favore di un collega, che la Costituzione l’ha violata alla grande, impedendo a una nave carica di profughi di attraccare. Suona surreale quel “conoscere bene la Costituzione”, perché suscita immediatamente una domanda: quanti “italiani veri” la conoscono? E cosa significa condividere i “nostri” valori? Quelli di un Paese (per non dire di un Continente) che rifiuta il dovere umano dell’accoglienza? Tralasciamo poi il discorso sulla scolarizzazione in un Paese dove un ministro, proprio per esaltare il genio italico, fa nascere Galileo settantadue anni prima, in modo che possa aiutare Colombo a trovare la rotta.
Quale sarebbe la cultura italiana che una persona venuta da fuori dovrebbe condividere? Dove inizia e dove finisce la “nostra” cultura? Quella che, secondo molti esponenti della destra, lo straniero “dovrebbe guadagnarsi”. Di fatto non si vuole lo Ius soli, ma lo si applica per noi, escludendo chi è nato altrove. Le parole di Tajani suonano benefiche, quelle che ci si aspetterebbe da un moderato, pronunciate con pacatezza, ma in realtà sono altrettanto violente di quelle urlate sguaiatamente da altri esponenti della destra. In linea con il tentativo di accreditarsi come il volto “buono” del governo, che propone uno Ius scholae quanto mai controverso, tranne poi non votare un emendamento che lo favorirebbe.
«Nessuno ha originariamente il diritto di trovarsi in un luogo della terra, piuttosto che in un altro», ha scritto Kant, eppure l’atto inconscio del nascere in un luogo piuttosto che in un altro anche agli occhi fintamente moderati di Tajani determinerebbe il destino di ogni essere umano. Quello che, infatti, è più sconcertante è che, nell’attribuire una priorità di diritti all’indigenato, si evoca tristemente il rinnovato ritorno a quel blut und boden tanto caro ai nazisti. Il binomio “terra e sangue” come fonte di diritto e di classificazione di un individuo. Come se l’essere nati qui fosse un merito e non un caso, come se l’essere nati qui conferisse caratteristiche specifiche particolari.
In un’epoca post razziale è su questo terreno che si gioca la nuova partita dell’esclusione. Cacciata dalla porta, l’idea razziale e razzista rientra dalla finestra, camuffata da “cultura”, fornendo strumenti apparentemente nuovi, ma quanto mai vecchi per tracciare confini, scavare solchi, erigere muri. Proprio mentre il ministro degli Affari esteri si mostrava magnanimo, nel concedere – a certe condizioni – la cittadinanza, Matteo Salvini mandava in onda, complice una Rai asservita, un video in cui ribadiva di “avere difeso i confini dell’Italia”.
Da chi? Da orde barbariche assetate di sangue o da disperati in cerca di una vita decente. L’ospitalità e il senso di umanità non sono più dei valori, o almeno non lo sono se applicati ad altri. Sono questi i confini su cui si costruisce una nuova retorica disumanizzante, che riduce gli individui a un dato anagrafico su cui erigere il muro tra “noi” e “loro”. Come nelle accuse di stregoneria: individuare un nemico esterno, per pensarci tutti buoni. Così sentiamo spesso dire da esponenti della politica di sentirsi fieri di essere italiani. Perché? Posso essere più o meno soddisfatto delle scelte che ho fatto, pentito o rammaricato dei miei errori, ma sono stati comunque frutto di scelte. L’essere italiano, francese o tagiko non è una scelta. Vengono in mente le parole del compianto Giorgio Gaber: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
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