Può aiutarci una riflessione non costretta nei tempi della cronaca a decifrare il senso della “grande trasformazione” in corso nei rapporti economici, negli equilibri geopolitici, negli assetti istituzionali?
(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it)
In politica l’arte della tattica e della strategia è sempre fondamentale, ma temo sia alla fine inefficace se non comprende in che contesto epocale si colloca, così come storia e scienza politica diventano un pallido pensiero se non si coniugano a prassi, a volontà, a invenzione di nuovi mezzi per aggredire e risolvere i problemi. La crisi del 2007-2008 sembra ripetersi. Dunque, pure le crisi finanziarie sembrano aver perduto la periodicità di un tempo per risolversi anch’esse in perenne emergenza. Gli interventi degli Stati attraverso i diversi organismi cui hanno dato vita si sono rivelati di un’efficacia incomparabile rispetto al passato, riuscendo a isolare le zone rosse ed evitare che scoppi la pandemia. Sarà così anche ora probabilmente. Ma a che prezzo? Gli Stati pompano risorse immense all’interno del sistema economico-finanziario e più sono politicamente potenti più ne pompano, alla faccia delle retoriche liberiste su interventi, aiuti pubblici e sacralità delle “leggi di mercato”.
Ma questo può avvenire soltanto attraverso la crescita del debito. Ancora una volta, gli Stati più forti possono gonfiarlo senza temere, almeno a breve-medio periodo, contraccolpi catastrofici. A quelli più deboli queste pratiche risultano proibite. La disparità che si viene a creare è sistemica. Lo Stato debitore, più è debole più finisce col dipendere dal creditore. Il meccanismo del debito diventa il vero sovrano. Chi è in debito – debito significa de-habere, non avere – non ha alcun reale potere, alcuna autonomia rispetto alle decisioni dei mercati che ne posseggono i titoli. Esso deve accettare le regole imposte dal creditore, eseguire le politiche che a questi sembreranno utili. Laddove anche il debito privato è alle stelle cumulandosi con quello pubblico la situazione è analoga per il singolo cittadino. La sua condizione è quella di chi è in costante debito nei confronti di un sistema perfettamente anonimo, di cui non conosce gli attori e di cui ignora le finalità. Non può che aspettarne gli ordini e obbedire. E così sostanzialmente dovrà fare lo Stato debole.
Con la differenza che uno Stato disporrà sempre dei mezzi, se lo vuole, per cercare di scaricare sul privato il costo del proprio debito, soprattutto là dove quello privato sia, come in Italia, di gran lunga inferiore a quello pubblico e forse il più basso in Europa. L’inflazione serve anche a questo, tuttavia il ricorso da parte di un singolo Stato a tale classico mezzo per ridurre il costo del debito può risultare oggi bloccato da autorità e poteri sovranazionali. Non così quell’altro, più ancora efficace, che consiste nel fare a pezzi ogni residuo di Welfare, ridurre l’incidenza della spesa sociale, in termini reali, sul complesso degli investimenti pubblici. Il sistema che offre credito e garantisce il debito indirizza la politica di investimenti, stabilisce le priorità, controlla la realizzazione dei piani.
Ciò produce disuguaglianze sempre più intollerabili e moltiplica i motivi di protesta. Una società politica “indebitata” potrà sempre meno rispondere alle domande della società civile, che non rientrano negli interessi del creditore. La contraddizione si aggrava naturalmente quando ai motivi della crisi finanziaria se ne aggiungono altri derivanti dai conflitti geopolitici intrinseci alla globalizzazione. Si tratta, allora, di dirottare investimenti colossali per il rinnovo dei sistemi di sicurezza e di difesa. Il creditore benedice tali scelte, poiché il sistema economico-militare è un elemento cardine del processo produttivo e dell’aumento dei profitti. D’altra parte, è ben noto a chi studia le fondamentali regolarità della prassi politica che in momenti di tensione sociale la “struttura” di uno Stato regge tanto meglio quando più chiaramente individua un avversario o un nemico all’esterno. Il conflitto geopolitico può benissimo funzionare in questo schema: obbliga a investire nei settori più remunerativi del capitalismo attuale e, a un tempo, “struttura” all’interno il sistema socio-politico.
Sotto la spinta prepotente di tutti questi fattori assistiamo a una trasformazione delle costituzioni reali delle nostre democrazie, di cui finora si parla soltanto in qualche libro, ma che la politica ignora o rimuove. Sorvoliamo in questa sede sulle importanti disquisizioni intorno alla differenza tra emergenza e eccezione. La semplice realtà è che lo stato permanente di emergenza non può non finire col produrre una discontinuità istituzionale, e cioè una eccezione che contraddice le regole valse fino a quel punto. Lo Stato debitore sarà sempre più governato dalle “tecniche”, e dunque dai “tecnici”, rispondenti agli interessi del creditore. Sarà uno Stato amministrato secondo le finalità di quest’ultimo. La crisi radicale di sovranità comporterà uno sviluppo del conflitto sociale in forme completamente diverse dalla passata “lotta di classe”, ma non perciò meno radicali. E l’ordine interno potrà essere tenuto ricorrendo sempre più a procedure autoritarie, anch’esse completamente diverse dai totalitarismi novecenteschi, procedure che si presenteranno con l’aria paternalistica di una mera governance tecnico-amministrativa. Quali?
In corso di sperimentazione un po’ ovunque: misuratori di comportamenti sociali, “patenti” che dividano i cittadini in base alla loro “virtù” e stabiliscano così premi e punizioni; provvedimenti che inducano, a volte con gentile spinta, a volte con robuste gomitate, alle “buone pratiche”; raccolte sistematiche dei dati di ciascun individuo per misurarne, a sua insaputa, il rischio di “irregolarità”, non i reati commessi, ma appunto il pericolo che egli possa commetterli, e sorvegliarlo adeguatamente di conseguenza. Tutto ciò è futuribile soltanto per coloro che si ostinano a ignorare il presente e che hanno vissuto e vivono le emergenze di questi anni come qualcosa di contingente e passeggero, non come il segno di un salto d’epoca.
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