mercoledì 25 maggio 2022

È ora di finirla di giocare alla guerra in Ucraina

Mentre il territorio del Donbass viene lentamente conquistato dalle truppe russe e la sacca di Severodonetsk, dove si trovano le truppe ucraine, si avvia a essere chiusa, gli appelli di Zelensky al mondo economico usano ancora la retorica del “vinceremo”. 

(DI FABIO MINI – Il Fatto Quotidiano - Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano ed è stato Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. )

E il mondo finanziario esulta. Infatti pregusta la più grande pappatoia del secolo: appropriarsi dei fondi russi congelati nelle banche occidentali come anticipo dei trilioni di dollari che saranno richiesti alla Russia in riparazioni di guerra. 

Intanto, secondo questa narrazione, si avvicina anche la fine di Putin e del suo entourage di oligarchi, non molti a dire la verità, ma ancora danarosi, ai quali far pagare l’avventura ucraina. Prezzo che sarà in effetti pagato dalla popolazione russa che dovrà lavorare in silenzio per i prossimi decenni per conto dei vincitori. Nelle intenzioni dell’intero Occidente, si profila anche l’opportunità di metter le mani su tutte le immense risorse russe e prosperare per il prossimo secolo.

Il meccanismo attivato dagli Stati Uniti tende infatti a questo e la vittoria vicina dell’Ucraina rende ancora più urgente e promettente la partita da giocare in Estremo Oriente. Non a caso il presidente Biden continua a lanciare avvertimenti alla Cina “nel caso voglia invadere Taiwan”, esattamente come ha fatto con la Russia “nel caso avesse invaso l’Ucraina”: più che avvertimenti, sembrano inviti. E per l’Ucraina hanno funzionato.

Tutto insomma pare andare a gonfie vele, anche se qualche granello di sabbia potrebbe bloccare l’ingranaggio così meticolosamente predisposto per la vittoria. La resa della cosiddetta resistenza dell’Azovstal è uno dei più fastidiosi. Zelensky si è dovuto inventare l’ordine di arrendersi per giustificare la resa. È improbabile che i duemila tangheri attendessero l’ordine da Zelensky. Piuttosto si aspettavano di essere tirati fuori con un blitz organizzato dagli americani o dagli inglesi. Molti di loro si sentono traditi e abbandonati non solo da Zelensky, di cui hanno stima pari a zero, ma dai loro capi e finanziatori che tengono le redini del governo e le palle degli occidentali, americani e inglesi in particolare. Svanito l’eroismo del suicidio collettivo secondo il mito di Masada, al quale nessuno degli Azov aveva mai pensato, è subentrato il mito del “sacrificio” di arrendersi in obbedienza al capo. È un mito che può produrre eroi soltanto quando si è a corto di atti veramente eroici. Mito pericoloso perché attribuisce al capo le responsabilità delle azioni eroiche, ma anche dei crimini.

Ogni atto di barbarie commesso negli ultimi otto anni in Donbass e nel resto dell’Ucraina da membri dell’Azov ora è imputabile al capo. E ora i membri dell’Azov saranno processati. La trattativa per lo scambio di prigionieri dell’acciaieria, se mai ci sarà, riguarderà militari dell’esercito regolare che stavano in mezzo a loro, ma non necessariamente con loro. Così come i civili evacuati nei giorni precedenti non solo erano vittime, ma in un processo saranno “scudi umani e ostaggi” ai quali era stato impedito di lasciare la città. Per gli altri prigionieri, il processo non verterà esclusivamente sulle responsabilità personali, ma soprattutto su quelle della catena gerarchica. E questa risale a Zelensky.

Altro granello fastidioso è la posizione degli Usa. Gli americani più sprovveduti si stanno rendendo conto di essere in guerra con la Russia, circostanza fortemente negata dal presidente Biden che tuttavia la sta alimentando. Iniziano a percepire che il rischio di escalation e quindi di coinvolgimento diretto di americani è concreto e che l’opzione nucleare è già prevista. La stessa sicurezza dell’ambasciata Usa a Kiev, che deve essere rinforzata da una guarnigione di marines, è un brutto segnale: evidentemente non si temono i russi, ma gli stessi ucraini. Spetta infatti alla nazione ospitante garantire la sicurezza esterna delle strutture diplomatiche e quindi si paventa il pericolo che gli ucraini non siano in condizione di farlo e anzi che potrebbero essere proprio loro ad assaltarle.

Il provvedimento annunciato da Biden dovrebbe suonare a Zelensky come un segno di sfiducia, ma può essere che al suo entourage di estremisti la cosa possa fare comodo: o come appoggio o in forma di nuovi “scudi”. In tutti questi anni (almeno dal 2004 in poi) l’intelligence americana ha avuto il tempo di conoscere vita, morte e miracoli degli interlocutori ucraini e forse per questo non si fida: tant’è che ha fatto abbandonare la sede diplomatica di Kiev prima dell’invasione, contribuendo al panico internazionale; e ora ne rafforza la difesa forse per lo stesso motivo.

L’intelligence Usa nelle ultime settimane è visibilmente sotto pressione. All’interno della stessa Amministrazione crescono le domande sulla guerra, sui veri scopi e gli obiettivi americani e sui rischi da correre. Biden tenta di rassicurare ostentando sicurezza, ma la comunità dell’intelligence deve dargli risposte chiare su alcuni punti.

Per esempio: se davvero la Russia ha commesso un sacco di errori politici, militari ed economici, non è riuscita a prendere Kiev ed è in affanno in Donbass, come mai per anni è stata considerata una minaccia esistenziale fino a trascinarci in guerra? Si è trattato di una valutazione fallace per incapacità o un pretesto architettato? E, se ancora oggi si sostiene che la Russia non ha strategia, i suoi generali sono incompetenti, l’organizzazione militare è allo sbando ed è stata la resistenza ucraina a farla dirottare, su cosa si basa la previsione della minaccia russa all’Europa e alla Nato? E se oggi si è consapevoli che una Russia esasperata può fare ricorso alle armi nucleari, perché non è stata valutata prima? Era un’opzione da scartare, o da temere, o da sperare? E sulla base di quali elementi d’intelligence? Gli stessi che hanno sottovalutato, o esagerato, o falsificato la minaccia?

Infine: la pretesa di garantire la sicurezza del sistema occidentale con i suoi “valori” – veri o falsi, condivisi o divisivi, sentiti o sentiti dire – con l’allargamento della Nato, la guerra in Europa e la vittoria sulla Russia deve trovare una risposta piuttosto urgente al quesito che sta ronzando nei cervelli degli americani e di alcuni europei: fino a che punto provvede l’Ucraina e a partire da quale punto intervengono direttamente gli Stati Uniti e la Nato? Non si sa ancora se e come risponderà la comunità dell’intelligence statunitense, che tuttavia è piuttosto “elastica” nelle valutazioni.

Lo sanno bene Obama e Biden che fecero modificare la valutazione d’intelligence sull’Iran quando volevano fare l’accordo sul nucleare. Per poi cambiarla di nuovo quando non serviva più. Finora la sicurezza dell’Europa, della Nato e degli Stati Uniti è stata affidata ai “giochi” di guerra – in cui si crede esista un vincitore e uno sconfitto – e alle chiacchiere sulla pace. È giunto il tempo perché si smetta di giocare e si parli veramente di sicurezza, perché non c’è pace senza sicurezza.

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