Nel fiume di parole dette e scritte, strillate o sussurrate, che è esondato su tutti i nostri media, alcune parole importanti sono state sommerse dal fango della vergogna e della menzogna, trasportate dai detriti di ideologie divelte, confuse tra le ondate di piena dell’intolleranza, dell’irrazionalità e della strumentalizzazione.
(DI FABIO MINI – Il Fatto Quotidiano)
Ad esempio, la parola “aggressione”: nel diritto internazionale definisce una violenza armata di uno Stato contro un altro, fatta con forze preponderanti e senza preavviso. Ed è un crimine internazionale per quasi tutti gli aggressori. Quasi. Con vari escamotage e cavilli non sono risultati criminali né la Nato per l’attacco alla Serbia né gli Stati Uniti per la guerra all’Iraq del 2003 e altre guerre sparse. Ancorché la norma appaia ferrea, la sua applicazione è ancora oggetto di discussione tra gli esperti giuridici. Dal 2005 è stata inserita la norma della “Responsabilità di proteggere” e la sua applicazione nel quadro delle azioni previste dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite che assegna agli Stati e alleanze la responsabilità di proteggere i propri cittadini dai crimini internazionali come genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità e pulizie etniche. In questo caso l’Ucraina, gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione europea sono stati velocissimi nel qualificare le operazioni russe come aggressione, ma senza considerare gli otto anni in cui l’Ucraina non solo non ha protetto i propri cittadini del Donbass da crimini contro l’umanità, ma essa stessa ha intrapreso azioni violente contro di essi. Nessuno ha poi dato retta alle osservazioni russe sul fatto che l’intervento era stato chiesto da autorità di repubbliche autoproclamate e impegnate nella reciproca sicurezza. È vero, si tratta di questioni legali, opinabili e saranno opinate in tutte le sedi a partire dalle Nazioni Unite, ma intanto si spara, si ammazza e il termine “aggressione” è entrato stabilmente nel lessico ufficiale dei rapporti internazionali riferendosi esclusivamente alla Russia.
Eppure da quando è iniziata l’invasione russa, gli stessi americani hanno cominciato a modificare la parola aggressione in “aggressione-non-provocata”. Non c’è tweet o discorso ufficiale in cui tale nuovo termine non sia usato per definire la guerra in corso. Siccome la giurisprudenza internazionale non prevede la giustificazione o attenuante della provocazione per l’aggressione, la modifica lessicale è quantomeno sospetta. Da un lato sembra offrire alla Russia uno spiraglio a una possibile derubricazione del reato; dall’altro, appare come una auto-assoluzione per tutti i precedenti di aggressione effettuati dalla Nato e dagli Stati Uniti o, peggio, per l’accusa di aver provocato l’aggressione russa.
Altre parole chiave che hanno perduto il loro significato e la valenza etico-politica sono “autodeterminazione” e “intervento umanitario”. Usate e abusate per giustificare le guerre occidentali condotte dagli Usa e dalla Nato, non valgono per le popolazioni russofone dell’Ucraina che non volevano stare più in un Paese che con i presidenti Yushchenko e Poroshenko avevano perpetrato l’annientamento politico e fisico delle loro comunità. C’è poi la parola “minaccia” che nella forma di minaccia totale è applicata alla Russia e che nella forma di “minaccia esistenziale” è invocata dalla Russia. La prima è il pretesto per elevare i toni e i rischi di escalation bellica, la seconda è una linea rossa tracciata dalla Russia per non ammettere eccessivi compromessi. In questo caso, gli Stati Uniti e la Nato negli ultimi 24 anni hanno minacciato la Russia su tutti i fronti, ma essa ha reagito con la forza soltanto quando essa è diventata esistenziale. Ossia nella questione della sicurezza del Caucaso e in quella della Crimea. Oggi la minaccia totale non riguarda l’Ucraina ma tutta l’Europa, come minimo, e per la Russia è esistenziale la minaccia posta dall’Ucraina e dalla Nato. Mentre non sembra “esistenziale” la prospettiva di un ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia.
Una soluzione sensata per i negoziatori
Ora, se
soltanto si potesse far capire a eventuali negoziatori il significato e
le conseguenze dello stravolgimento lessicale, forse si potrebbe trovare
una soluzione sensata. Tuttavia lo stesso negoziato è in crisi per
l’errata e fuorviante interpretazione di un’altra parola chiave: diplomazia.
Si sente dire che “quando le armi parlano la diplomazia tace”: è una
idiozia e un crimine. Se i responsabili delle diplomazie europee e
statunitensi non avessero chiuso il confronto dialettico con Mosca non
saremmo giunti a questo punto. Anche il dialogo che parte con gli “aut aut”
è pur sempre un punto di partenza. E se al primo ostacolo si chiudono i
canali significa solo che o non si sa fare diplomazia o non si vuole
nessun accordo e allora è infantile e ipocrita affermare dopo, a guerra
iniziata, di voler la pace o la sospensione delle ostilità. Ma anche in
questo caso è doveroso non rinunciare al dialogo.
Durante la guerra in Vietnam i colloqui ufficiali tra Usa e Vietnam del Nord non furono mai interrotti. A partire dal 1968 fino agli accordi del 1973, a varie riprese e in varia forma: apertamente con il negoziatore Duan Thuy e sotto traccia tra Kissinger e Le Duc Tho già a partire dal febbraio 1970. Gli accordi di Parigi del 1973 non furono definitivi e nonostante ciò Kissinger e Leduc ricevettero il Nobel per la pace. Le Duc lo rifiutò, non perché fosse ricco o non meritevole ma perché la guerra non era affatto finita. Si concluse con la caduta di Saigon nel 1975 quando il Congresso americano annullò dal budget federale i finanziamenti per gli “aiuti” al Vietnam del Sud che, meno ipocritamente, erano i finanziamenti per la guerra.
Non fu la prima volta che una guerra finisse per mancanza di soldi e neppure l’ultima. La guerra decennale tra Iran e Iraq si concluse quando furono chiusi i rubinetti di alimentazione della guerra finanziari e in armamenti compresi quelli di aggressivi chimici da parte degli Usa e della Russia all’Iraq e all’Iran.
Oggi la situazione in Ucraina sembra più difficile che mai ed è prossima a un’escalation regionale e globale per una situazione formale che di fatto ha incancrenito i rapporti fra Russia e Stati Uniti. A partire dalla rivoluzione arancione del 2004 e dal colpo di stato contro il presidente Yanukovich del 2014, entrambi fomentati e finanziati dagli Stati Uniti, è stato perseguito un livello di ambizione smodato da parte di tutti: la Russia ha ritenuto sufficiente far valere il proprio potere di deterrenza nucleare per rientrare da protagonista nella geopolitica globale e conservare un regime autoritario; gli Stati Uniti hanno approfittato della debolezza intrinseca della Russia per eliminarla dalla competizione globale sottovalutando la minaccia nucleare; la Nato ha coltivato l’espansione verso oriente erodendo non solo territori d’influenza ma la stessa dignità della Russia; l’Unione europea ha creduto di allargarsi alle spese della Russia e di rinsaldare il proprio interno seguendo la scia di Nato e Usa; l’Ucraina ha creduto di potersi liberare dall’influenza russa e ghettizzare la popolazione russofona con le armi, contando sull’aiuto statunitense e della Nato.
La Partnership strategica Washington-Kiev
Aiuto
che in effetti c’è ancora e in termini così chiari e concreti da aver
superato da tempo la linea rossa della minaccia esistenziale. Ecco su
cosa si basa questo aiuto. Nella “Carta sulla Partnership strategica tra
Usa e Ucraina” firmata a Washington il 10 novembre 2021 dal segretario
di Stato Blinken e dal ministro degli Esteri ucraino Kuleba, che
aggiorna la precedente firmata nel 2008, si stabilisce che gli Usa
intendono:
– espandere la cooperazione bilaterale in ambito politico, di sicurezza, di difesa, di sviluppo, economico, energetico, scientifico, educativo, culturale e umanitario;
– appoggiare l’accesso dell’Ucraina alla Nato;
– prevenire aggressioni esterne dirette e ibride contro l’Ucraina;
– ritenere la Russia responsabile di tali aggressioni e violazioni del diritto internazionale, tra cui il sequestro e il tentativo (sic) di annessione della Crimea e il conflitto armato guidato dalla Russia in alcune parti delle regioni di Donetsk e Lugansk dell’Ucraina, nonché il suo continuo comportamento maligno;
– sostenere gli sforzi dell’Ucraina per contrastare le aggressioni armate, le interruzioni economiche ed energetiche e le attività informatiche malevole della Russia, anche mantenendo le sanzioni contro la Russia o a essa collegate e applicando altre misure pertinenti fino al ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. In particolare “gli Usa non riconoscono e non riconosceranno mai il tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia”;
– ribadire il loro pieno sostegno agli sforzi internazionali, compreso il Formato Normandia (Minsk-2), volti a negoziare una risoluzione diplomatica del conflitto armato guidato dalla Russia nelle regioni di Donetsk e Lugansk in Ucraina (tali accordi sono stati sempre snobbati dagli Usa e disattesi dall’Ucraina);
– sostenere gli sforzi dell’Ucraina di utilizzare la Piattaforma Crimea (pianificazione militare della rioccupazione) per coordinare gli sforzi internazionali per affrontare i costi umanitari e di sicurezza dell’occupazione russa della Crimea, coerentemente con la Dichiarazione congiunta della Piattaforma;
– sostenere l’ambizioso piano di trasformazione dell’economia ucraina, volto a riformare e modernizzare i settori chiave e a promuovere gli investimenti;
– proseguire la cooperazione nell’esplorazione e nell’uso dello spazio esterno per scopi pacifici e nell’attuazione di altre iniziative reciprocamente vantaggiose nell’ambito della cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale;
– riaffermare la necessità di rafforzare le infrastrutture sanitarie dell’Ucraina e la sua capacità di reagire e gestire le pandemie, come la pandemia Covid-19 (in realtà le 15 strutture di ricerca biologica in Ucraina sono state attivate a partire dal 2005 e col Covid hanno poco a che vedere. Sono finanziate direttamente dal Pentagono. I dati di rilevazione delle vittime del Covid sono fermi al 24 febbraio scorso e fino ad allora l’Ucraina aveva registrato oltre 5 milioni di contagi e 112.000 decessi).
Come si può osservare, le ambizioni di tutti si stanno scontrando con la realtà e non sarà facile indurre a una loro riformulazione soltanto gridando e insultando da lontano.
Forse è meglio cominciare a sussurrare qualcosa di più ragionevole che riguardi la sicurezza europea e globale nel suo complesso.
Il tempo per ragionare e negoziare è adesso, mentre si combatte, perché, disgraziatamente, nessuno vuol finire la guerra presto.
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