martedì 1 dicembre 2020

Roma. Tre brutte notizie

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Ogni secolo ha la “questione romana” che si merita. Per noi, oggi, quella questione riguarda il conflitto tra giustizia e legalità, tra cultura e rendita, tra città e mercato: un conflitto che, naturalmente, attraversa oggi l’intero Paese, ma che a Roma si fa più violento, dunque più leggibile.

In queste ore si sono intrecciate tre notizie che illuminano questo viluppo.

La prima, la più grave, riguarda lo sgombero del Cinema Palazzo, ordinato dal nuovo prefetto di Roma, già capo di gabinetto di Matteo Salvini (https://volerelaluna.it/territori/2020/11/26/roma-sgomberato-il-nuovo-cinema-palazzo/). Prima di leggerla sui giornali, l’ho appresa da una mail di Nino Criscenti, uno dei grandi giornalisti storici della Rai: «Una brutta, triste notizia romana: è stato sgomberato il Cinema Palazzo. Occupato dieci anni fa, contro il progetto di una sala Bingo, era diventato il punto di riferimento del quartiere, quasi un’istituzione, aperta a tutti, dai bambini agli anziani, centro culturale, un’idea di vita, un’idea di città, una di quelle iniziative che possono fare di un quartiere una comunità. Sgombero reso ancora più triste dalla violenta carica della polizia contro un pacifico corteo di protesta.

La cosa peggiore non è neppure questa, ma il fatto che lo sgombero è stato accoppiato a quello di un pub abusivo di Forza Nuova. Nella stessa notte. Come nell’età dorotea degli opposti estremismi». Parole di un pacatissimo ottantenne: che forse bastano a spiegare quanto fosse incomprensibile il tweet in cui la sindaca Raggi ringraziava le forze dell’ordine, mettendo quel duplice sgombero sullo stesso piano, e culminando nel monito: «A Roma le occupazioni abusive non sono tollerate. Torna la legalità». Anche per lo sgombero del Teatro Valle (agosto 2014) si invocò la legalità: che si è tradotta nel più completo vuoto. Un deserto che ha preso il posto di una straordinaria stagione intellettuale e civile. Laddove il Valle, e oggi il Cinema Palazzo, attuavano invece la Costituzione: che prevede (art. 42) che la proprietà privata debba avere un limite nell’utilità sociale, e che pone la cultura a valore fondamentale del nostro stare insieme (art. 9). Almeno dai tempi in cui Calamandrei prese la parola al processo a Danilo Dolci (1956) sappiamo che la legalità del Codice penale può non coincidere con la legalità della Costituzione, cioè con la giustizia. E a Roma alcune delle realtà più vive e più rivoluzionare per la cultura (si pensi allo straordinario Maam, il Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz) sono nate, non per caso, in spazi occupati: sottratti al mercato, in una sorta di legittima difesa di un’idea di città, e di cultura. Già, ma quale idea di cultura abbiamo?

La seconda notizia riguarda un altro sfratto, appena meno violento: quello che il Comune di Roma aveva intimato al glorioso (ed efficientissimo) Istituto Storico per il Medio Evo (fondato nel 1883), che ha sede (dal 1924) nel complesso borrominiano della Vallicella. Di fronte all’insurrezione compatta degli storici italiani, la sindaca Raggi è stata costretta a un imbarazzante (quanto necessario) dietrofront: e per il momento l’Istituto sembra salvo. Ma resta la domanda: che idea ha della cultura, e dell’uso dello spazio pubblico della città, un’amministrazione che pensa di liberarsi di un secolare luogo di produzione della conoscenza come ci si libera di una fastidiosa zanzara? C’è ancora posto per la cultura nelle nostre città, o tutto – anche i beni comuni, come il patrimonio monumentale e pubblico e la conoscenza stessa – deve essere misurato sul metro della rendita?

Terza notizia. La Biblioteca Nazionale Centrale di Roma emana un incredibile comunicato in cui celebra l’acquisizione del fondo archivistico di Pino Rauti, senza una riga di contestualizzazione storica e democratica di quella torva figura di fascista, repubblichino, implicato moralmente in alcune delle più efferate stragi della notte della Repubblica. Un fondo, poi, confezionato dalla famiglia (la cui commozione veniva narrata dallo stesso comunicato), e dunque un’avvelenata polpetta autoapologetica: forse da vagliare comunque, per sottoporlo in silenzio alla più affilata critica storica, ma certo non da legittimare come una conquista culturale. Dopo la denuncia dell’Anpi, della Cgil e di molti intellettuali, il ministro Dario Franceschini è intervenuto, e l’osceno comunicato è stato rimosso. Ma l’acquisizione acritica del fondo resta: e resta anche un direttore che invece dovrebbe essere rimosso all’istante. E se la Biblioteca Nazionale di Roma ha completamente smarrito il senso costituzionale della cultura – che è esattamente quello di un antidoto contro ogni  fascismo, e di uno strumento per il pieno sviluppo della persona umana – qualche domanda più generale dobbiamo porcela.

Nella prossima campagna elettorale romana si parlerà, immancabilmente, di cultura in termini di intrattenimento, e di fatturato: ma la vera discussione dovrebbe essere sul ruolo che la cultura deve giocare perché Roma torni ad essere una città, una comunità. E una comunità giusta, e inclusiva. Un simile dibattito riguarda tutta l’Italia, ed è tempo di affrontarlo senza infingimenti: di cosa parliamo quando parliamo di cultura?

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