Il 25 marzo, nel 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, l’ex ministro del governo Tsipras sarà a Roma con il suo movimento transnazionale Diem25 per lanciare “European New Deal”, un piano di riforma dell’economia europea. Convinto europeista, crede nell’importanza di un terzo spazio tra establishment e populismi: “Il ritorno allo Stato-Nazione non è la soluzione”.
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Sogna un’Internazionale progressista. La terza via, tra l’establishment tecnocratico e i populismi xenofobi. O, meglio, “Il terzo spazio” come recita il libro appena uscito scritto da lui e da Lorenzo Marsili (Editori Laterza).
Yanis Varoufakis è un convinto europeista, seppur conscio che le elite abbiano imboccato un vicolo cieco: “L’enorme disuguaglianza, l’accumulazione - nella periferia d’Europa - di un debito pubblico impossibile da ripagare, i salvataggi bancari pagati dai cittadini più deboli, la finanziarizzazione e, infine, la disintegrazione dell’Europa e la sconfitta del sogno di prosperità e di valori condivisi sono tutte conseguenze dello stesso preciso processo”. Un processo che secondo lui non è irreversibile. E soprattutto, l’economista greco non crede che la soluzione risieda nel neosovranismo: “Le istituzioni europee hanno fallito in modo spettacolare nel gestire la crisi che hanno contribuito a creare. Ma, allo stesso tempo, nessuno dovrebbe fidarsi di chi proclama che la soluzione sta nel ritirarsi in stati-nazione, barricati dietro nuove recinzioni di confine”.
Il prossimo 25 Marzo sarà nella Capitale, giorno nel quale i Capi di governo celebreranno i Trattati di Roma, per lanciare il progetto della sua Diem25, acronimo che invita a “cogliere l’attimo” ma che sta anche per Democracy In Europe Movement, con il 2025 come data entro la quale realizzare l’obiettivo di “democratizzare l’Europa”. L’idea sarebbe quella di costruire il primo partito transnazionale. Perché Varoufakis, dopo essere stato messo ai margini dal governo Tsipras durante le trattative con le Istituzioni, non ha intenzione di rimanere con le mani in mano: “Cambieremo quest’Europa”.
I dati di Oxfam ci consegnano un quadro preoccupante sull’aumento delle diseguaglianze: otto super Paperoni detengono la stessa ricchezza di metà dell’umanità. Un establishment che ha concentrato nelle proprie mani potere e denaro. Così l’Europa - a trazione tedesca - viaggia ormai a due velocità, sui cosiddetti Pigs grava il ricatto del debito pubblico, i valori di Ventotene sono ormai traditi e la finanza comanda indisturbata. Siamo all’implosione dell’Europa e del sogno l’europeista?
Il sistema capitalista globalizzato del dopoguerra ha attraversato una considerevole contrazione nel 1971 con la fine di Bretton Woods. Questo era basato su un sistema monetario comune (cioè tassi fissi di scambio tra Europa e Nord America), un attore egemone (gli Usa) con un surplus commerciale rispetto agli altri redistribuito alle regioni deficitarie (come per esempio con il Piano Marshall) e, infine, un sistema bancario fortemente regolamentato. Collassato questo sistema, siamo entrati in una nuova fase del capitalismo globale: l’attore egemone (ancora gli Usa) era in profondo e crescente deficit nei confronti del resto del mondo ma questo deficit creava domanda per le fabbriche del resto del mondo, tenute occupate dalle loro esportazioni verso l’attore egemone. E quest’ultimo pagava per queste esportazioni (e per i suoi deficit) attirando i profitti del resto del mondo. Come? Attraverso Wall Street. Ma questo tsunami di soldi verso Wall Street poteva essere creato solo se i banchieri di Wall Street fossero stati “deregolamentati”, cioè se fosse stato permesso loro di fare ciò che volevano. Il risultato è stata la finanziarizzazione e la creazione di enormi piramidi di carta che hanno permesso ai ricchi di diventare favolosamente ricchi. Durante questo periodo, l’Europa ha creato l’euro, senza ammortizzatori nel caso in cui le piramidi finanziarie fossero andate a fuoco. Quando questo è successo, l’onere di salvarle è stato scaricato sui cittadini più deboli. Negli Stati Uniti, le istituzioni federali (create durante il New Deal degli anni Trenta) sono riuscite ad assorbire gran parte del contraccolpo. Ma in Europa, dove non c’erano istituzioni simili, lo shock ha colpito gli europei e le regioni più fragili. I soldi sono stati presi ai deboli (cioè austerità) per rimborsare la finanza in difficoltà, a spese della domanda, dell’investimento e della sovranità nazionale. La disintegrazione dell’eurozona e la perdita dell’integrità e dell’anima dell’Ue è stato il risultato.
Secondo lei, ci sono parallelismi possibili con la crisi del ‘29? E, come dopo il ‘29, l’uscita dalla crisi sarà inevitabilmente a destra?
È già successo. L’ascesa dell’Internazionale nazionalista ovunque in Occidente è la conseguenza diretta delle forze deflazionalistiche lasciate scatenare come risultato della cattiva gestione del ‘29 della nostra generazione, che ha avuto luogo come sappiamo nel 2008. Anche nei paesi in cui l’ultra destra non è arrivata al potere (Ukip nel Regno Unito, Wilders in Olanda, i neo-fascisti in Austria eccetera) è riuscita a plasmare l’agenda di governo.
Da un lato ci sono i Trump, i Farage, le Le Pen, e i populismi xenofobi, dall’altro c’è la tecnocrazia globale dell’establishment che ha l’unico obiettivo di restare al potere a qualsiasi costo. Come si esce da questa tenaglia?
Solo costruendo un’Internazionale progressista che sia di ispirazione per le masse e le convinca che la strada per riprendere il controllo delle loro vite, città, regioni e paesi passa per la risoluzione di alcuni problemi comuni che affliggono tutta l’Europa a un livello pan-europeo: per esempio debito pubblico, crisi bancaria, basso livello d’investimento aggregato, povertà, questione dei rifugiati. La nuova Internazionale progressista deve convincere gli europei che confini rinforzati offrono nuovi problemi anziché nuove soluzioni. E deve dissolvere la falsa credenza che ci sia una contropartita tra sovranità nazionale da un lato e soluzioni transnazionali di comuni problemi degli europei dall’altro.
Lei parla di grande coalizione progressista ed europeista. Ma nel concreto è veramente possibile invertire la rotta dell’Europa? I dati di sfiducia dei cittadini nei confronti di Bruxelles sono ormai altissimi e le istituzioni, in questi anni, sembrano restie ad ogni forma di riformabilità dal suo interno...
Nessuno dovrebbe fidarsi di Bruxelles. In effetti, le istituzioni europee hanno fallito in modo spettacolare nel gestire la crisi che hanno contribuito a creare. Ma, allo stesso tempo, nessuno dovrebbe fidarsi di chi proclama che la soluzione sta nel ritirarsi in stati-nazione, barricati dietro nuove recinzioni di confine. La nostra sfiducia in Bruxelles e Roma (o Atene, Berlino, Parigi eccetera) deve andare di pari passo con la nostra determinazione a portare un cambiamento progressista sia a Bruxelles che a Roma che a Parigi, Atene eccetera eccetera. L’Europa sta cambiando in un modo o nell’altro. Ma per guidare questo cambiamento in una direzione che vada a beneficio delle maggioranze nei nostri paesi, che ora soffrono affinché pochi possano prosperare, dobbiamo agire come fossimo un tutt’uno a livello locale, regionale, nazionale e pan-europeo. Questo è lo spirito e l’agenda di DiEM25: battersi dentro e contro ogni istituzione nella nostra città, regione, nazione e in Europa così che possiamo rianimare la speranza a ogni livello.
Democratizzare le istituzioni europee, cosa vuol dire esattamente? Se ci fosse veramente un Parlamento europeo con potere decisionale in questo momento avremmo la supremazia delle forze reazionarie, non trova?
Democrazia significa essere in grado di porre a chi è al potere alcune domande di base e ottenere risposte sensate e convincenti: quali poteri avete su questioni che modellano le nostre vite? Chi vi dà questi poteri? Come li state usando? Come possiamo sbarazzarci di voi? Il problema, con le attuali istituzioni europee, è che nessuna di queste domande può avere una risposta soddisfacente. Per esempio, la Banca centrale europea, l’Eurogruppo e la troika più in generale non possono dirvi davvero quali poteri hanno, come li usano e come possiamo liberarci dei membri dei loro consigli esecutivi. In una Unione europea democratica, il Parlamento dovrebbe essere in grado di licenziare il consiglio di amministrazione della Banca centrale e l’Eurogruppo.
Pensiamo alle recenti norme sui migranti introdotte in Ungheria e in Polonia. In alcuni casi, le Costituzioni nazionali non sono salvifiche?
No, non proprio. Dato che il diritto dell’Ue è superiore al diritto nazionale, le costituzioni nazionali vengono “castrate” in un’Unione guidata da gruppi oscuri le cui operazioni non sono neppure legittimate da nessuno dei Trattati Ue – per esempio l’onnipotente EuroWorkingGroup.
In una recente intervista ha dichiarato: “La mia visione sull’euro è che è stato ideato erroneamente e che, dato questo errore iniziale, avremmo fatto meglio a non introdurlo. Ma questo è diverso dal dire che dovremmo abbandonarlo una volta entrati a far parte dell’eurozona”. Quando era Ministro delle Finanze del governo Tsipras non parlava di Plan B e non aveva una posizione più di rottura con l’euro e l’Unione Europea? Ha cambiato idea?
Temo di non aver cambiato idea neanche un po’! Ho sempre sostenuto questo. Visto che l’euro è stato creato dovremmo cercare di sistemarlo anziché uscirne. E ho sempre sostenuto che, di fronte a interessi particolari nella Ue e nell’eurozona che insistevano che l’euro non avrebbe dovuto essere aggiustato, da cui maggiore austerità, prestiti impossibili da ripagare, depressione e difficoltà cui sono stati costretti i nostri paesi, allora i nostri governi avevano il dovere di disobbedire e di resistere con forza alla spinta verso tutto questo. Se questa resistenza avesse fatto sì che gli interessi particolari che dominano l’Eurogruppo, la troika eccetera ci minacciassero di uscita dall’euro, avremmo avuto il dovere di dire loro: Fai del tuo peggio, noi non ci stiamo tirando indietro! Ovviamente per poterlo dire in maniera credibile, c’è bisogno di un Piano B. Questa era la mia idea prima di entrare nel governo, mentre ero al governo e ora… A DiEM25 abbiamo un nome per questo. La chiamiamo disobbedienza costruttiva!
DiEM sembra in crescita ma come si può trasformare in forza politica? Mi spiego: al di là delle convention con grandi intellettuali e personaggi europei e al di là delle analisi e dei contenuti, non si delinea ancora il progetto di una forza capace di incidere. Come si può passare dalle parole all’azione concreta?
Quando abbiamo lanciato DiEM, il 9 febbraio 2016 a Berlino, abbiamo messo in chiaro che, nel nostro primo anno come movimento, il nostro compito sarebbe stato quello di costruire l’organizzazione mentre cercavamo di rispondere in modo convincente alla domanda: cosa bisogna fare? Ci siamo riusciti. DiEM25 è ora in funzione e adesso pensiamo di avere la risposta a questa domanda: l’abbiamo chiamata European New Deal e la presenteremo a Roma il prossimo 25 marzo. La prossima domanda alla quale abbiamo pianificato di rispondere è: come possiamo far sì che accada? A Roma faremo un importante annuncio a riguardo. Per ora basti dire che DiEM25 è determinato a portare la nostra agenda European New Deal alle persone di tutta Europa, cercando sostegno elettorale per essa nei prossimi mesi e anni. È così che pensiamo di muoverci dalle parole alle azioni concrete.
(17 marzo 2017)
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