contropiano
Di
ritorno dalla California, Renzi si imbatte nella difesa del lavoro,
come principio sui cui la Repubblica italiana si fonda, con questa
argomentazione respinge l’idea del reddito di cittadinanza che al
contrario del lavoro è, secondo lui, incostituzionale. Un atteggiamento
che rasenta il paradosso, ma anche una non banale dose di
approssimazione su argomenti chiave: il lavoro, il reddito,
l’autodeterminazione individuale e collettiva, la libertà.
Paradossalmente
Renzi parla di lavoro come diritto costituzionalmente garantito
nonostante le riforme adottate dal suo governo in materia di lavoro e
occupazione siano ben distanti dai principi fondamentali della Carta.
Il lavoro e la costituzione.
A
partire dalle periferie del mercato del lavoro, quello gratuito, in
appalto o a voucher in cui sono negati i diritti previsti dall’art 36
della Costituzione in base al quale “Il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa. […] Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e
a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. La frantumazione
del mondo del lavoro perseguita, volontariamente, per mezzo delle
riforme di flessibilizzazione e liberalizzazione disinnesca altri ben
più profondi principi costituzionali. Parliamo dell’articolo 3 che dota
la Repubblica dell’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale, o giustizia
sociale che dir si voglia, e si adopera per eliminare tutti quegli
ostacoli che impediscono “l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione economica” oltre che politica e sociale.
Dove però l’organizzazione economica a cui i padri costituenti facevano
riferimento è antitetica a quella che poggia sullo sfruttamento e più in
generale sulle tendenze del capitalismo contemporaneo. Così la
precarizzazione dei lavoratori non è solo un fattore di instabilità
economica, ma, attraverso la mercificazione del rapporto di lavoro,
disinnesca la capacità dei lavoratori, organizzati o meno, di incidere
sulle scelte aziendali, sull’organizzazione del lavoro in termini di
salari, tempi di lavoro ma anche investimenti quindi di partecipare allo
sviluppo economico del Paese. Un paradigma che investe non solo le
periferie e i bassifondi del mercato del lavoro, ma anche quello che un
tempo ne poteva essere considerato il centro, cioè un rapporto di lavoro
stabile portatore pieno di diritti.
Il
divorzio tra costituzione e diritto del lavoro vive anche in altri
provvedimenti cardine del Jobs Act, ad esempio il demansionamento in
base al quale il lavoratore può essere relegato a mansioni inferiori
mediante una decisione unilaterale del datore di lavoro purché
supportata da una «modifica degli assetti organizzativi aziendali». In
questo caso, ad essere manomesso è l’articolo 35 della Carta
Costituzionale secondo cui “la Repubblica cura la formazione e
l’elevazione professionale dei lavoratori”. Decisione unilaterale che
non riguarda solo il demansionamento ma investe molti aspetti del
rapporto di lavoro a partire dal diritto di licenziamento anche senza
giusta causa e soprattutto senza diritto al reintegro per il lavoratore.
In sintesi, da un lato, alle imprese è attribuita piena discrezionalità
su tutti i fronti: quanto e quale lavoro, quale produzione e quali
processi produttivi. Dall’altro lato, l’impresa non è più tenuta ad
essere responsabile della tenuta democratica del Paese, contrariamente a
quanto sancisce l’articolo 2 della Costituzione: “La Repubblica
richiede […] l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”.
Il lavoro di cittadinanza
Se
questa è la prospettiva perseguita dalle riforme promosse dai governi e
approvate dai Parlamenti che si sono succeduti negli ultimi decenni,
tra cui quello presieduto da Matteo Renzi, l’evocazione di un “lavoro di
cittadinanza” apre a valutazioni inquietanti. Infatti, il divorzio tra
Costituzione e diritto del lavoro si è tramutato non soltanto in una
deflazione salariale senza precedenti, la quale erode progressivamente
la quota salari sul totale del reddito nazionale aumentando le
diseguaglianze socio-economiche, ma ha permesso che la competitività del
tessuto imprenditoriale fosse fondata sul costo del lavoro e non invece
sulla qualità dei prodotti e dei processi produttivi. Ad oggi, come
mostra il rapporto European Job Monitor 2016 dell’Eurofound, le
posizioni lavorative create tra il 2011 e il 2015 si concentrano nel
venti percento dei lavori retribuiti peggio. Una dinamica che persiste e
che riguarda ormi tutte le forme di lavoro. Se in parte questa tendenza
è legata a un’occupazione in settori scarsamente qualificati e
qualificanti per il lavoro, come il turismo, il commercio al dettaglio,
la logistica, dall’altro rimane intatta la deflazione salariale anche
all’interno di comparti industriali i quali tuttavia scontano lo scarso
investimento in innovazione di cui si è appena detto.
A
ben vedere nell’attuale condizione del tessuto produttivo, il lavoro di
cittadinanza non può che tradursi nella distribuzione di un dovere al
lavoro senza il riconoscimento di alcuna dignità per i lavoratori. Tanto
nel settore privato quanto in quello pubblico che oggi promuove lavoro
di scarsa qualità e con sempre minori diritti, come dimostra l’uso
intensivo dei voucher e del ricorso al lavoro gratuito, ormai sempre
meno mascherato da volontariato, da parte delle amministrazioni
pubbliche.
Le
dichiarazioni dell’ex Presidente del Consiglio ed ex Segretario del
Partito Democratico, Matteo Renzi, vanno allora collocate più in un
attacco alla proposta di reddito di cittadinanza del M5S che in una
rinnovata, benché confusa, idea della centralità del lavoro e della sua
dignità come fattore di riassorbimento delle crescenti diseguaglianze.
L’enfasi posta sui meccanismi di redistribuzione del reddito e della
ricchezza come risposta all’aumento delle diseguaglianze sembra
raccogliere ampio consenso in larghi strati delle forze politiche e
dell’opinione pubblica. Una discussione che a ben vedere non appassiona,
invece, l’ex capo del governo, più attento a non urtare gli umori del
blocco sociale che lo ha sostenuto e con cui continua ad interloquire,
da Confindustria alle grandi banche d’affari.
Reddito come redistribuzione non si occupa del chi come e cosa produrre
Nel
frattempo, da destra a sinistra emergono opinioni comuni sulla
necessità di introdurre misure che allevino le disparità interne al
mercato del lavoro e che riducano i differenziali tra la parte più ricca
della popolazione e ampie fasce di società condannate ad un regime di
bassi salari e disoccupazione. Nella molteplicità delle posizioni sul
tema è possibile distinguere due impostazioni: da una parte chi
rivendica l’introduzione di misure di sostegno al reddito che rispondano
ai periodi di disoccupazione e non lavoro e quindi inserite in una
riforma degli ammortizzatori sociali; dall’altra chi attribuisce al
diritto al reddito una funzione di emancipazione individuale non legata
al “lavoro”, quindi reddito come diritto universale di base: come
architrave di un nuovo patto sociale e costituzionale.
È
indubbio che l’introduzione di una misura universalistica di sostegno
al reddito è necessaria e consentirebbe di dare una risposta immediata
alla vulnerabilità sociale di intere fasce di lavoro povero e di persone
prive di occupazione, oltre a rappresentare uno strumento di difesa
contro il ricatto di lavoro sottopagati e privi di tutele.
Senza
entrare nel merito delle due opzioni, è utile sottolineare come
entrambe tendano a separare la questione “redistributiva” dalla
dimensione più propriamente distributiva, legata quindi al controllo dei
processi di produzione e alle implicazioni che queste assumono nel
determinare l’ammontare di reddito prodotto e la sua allocazione
primaria. Un tema che appare invece centrale nel leggere le
trasformazioni che attraversano gli assetti produttivi – il cosa e come
si produce – e le dinamiche di accumulazione capitalistica – dove va il
reddito prodotto tra salari e profitti.
Detto
altrimenti, entrambe le impostazioni esulano dall’includere nella
propria analisi domande sul chi, come e cosa produrre, relegando il tema
del controllo degli investimenti e più in generale il problema
dell’organizzazione del lavoro e degli assetti proprietari a fatto
secondario. I processi di privatizzazione e il trasferimento al mercato
degli oligopoli privati di interi settori strategici, dal trasporto
all’energia, dalle telecomunicazioni e al settore del credito perdono di
importanza, quando non addirittura estromessi dalla discussione.
Ne
emerge una prospettiva comune in cui il piano delle lotte nei luoghi di
lavoro è scisso dalle scelte politiche. Viene separato cioè il terreno
della rivendicazione di potere nell’allocazione dei fattori della
produzione, capitale e lavoro (salari e profitti), dalla riforma dello
stato e dei suoi rapporti con il mercato (a chi spettano le decisione
sul chi e come e quanto produrre). La redistribuzione del reddito
diventa speculare all’ideologia della “fine del lavoro” che,
prefigurando la scomparsa del lavoro vivo attraverso l’introduzione
della tecnologia, finisce per sciogliere la portata dello scontro tra
capitale e lavoro in una dimensione esclusivamente riproduttiva, cioè di
gestione del tempo liberato dal lavoro tra consumo e vita privata. Ma
così facendo si finisce per ignorare gli assetti che a monte producono
le diseguaglianze di potere, tra chi vende la propria forza lavoro e chi
ne acquista la proprietà, tra chi decide cosa produrre e chi solo il
diritto di consumare.
Un
discorso che appare altresì miope al cospetto della realtà italiana.
Quando si parla della fine del lavoro in Italia, bisogna guardare in
faccia la realtà: l’assenza di domanda di lavoro dovuta alla
sottoutilizzazione degli impianti nel presente e futuro prossimo e allo
stesso tempo a un impoverimento della produzione stessa. Situazione che
deriva dal crollo della capacità produttiva italiana, oltre il 20%
nell’ultimo decennio, accompagnato da un crollo del 30% degli
investimenti, mai recuperato e non dall’automazione sfrenata dei
processi produttivi.
Consumo come unica fonte di autonomia
Nel
momento in cui il reddito viene elevato a strumento necessario e
sufficiente per l’emancipazione, l’unico terreno di liberazione appare
quello del consumo. Naturale conseguenza è la netta separazione tra chi
detiene il capitale e comanda la produzione e chi consuma. Scompare
l’idea che possa esistere una soggettività collettiva, la classe
sociale, che si forma nel conflitto produttivo e prova a rovesciarne gli
attuali assetti proprietari e di organizzazione sociale.
In
quest’ottica, l’emancipazione attraverso il consumo, in un modello
capitalistico dominato dalla proprietà privata, è presto esaurita. A
maggior ragione in un contesto in cui i bisogni sono eterodiretti a
vantaggio dei produttori attraverso gli oligarchi della grande
distribuzione. Considerazioni che si traducono sul piano
dell'organizzazione sociale in fenomeni di individualizzazione e
frammentazione dei soggetti più vulnerabili, agendo in controtendenza
rispetto a processi di ricomposizione sociale e di lotta politica.
Lo
sanno bene quegli imprenditori, come Bill Gates, che oggi si dicono
disposti a tassare i robot per risarcire i lavoratori espulsi dai
processi produttivi a causa della tecnologia. Siamo di fronte a un
compromesso necessario per i capitalisti che necessariamente devono
garantire a loro stessi prima ancora che al resto della popolazione, la
possibilità di consumo, cioè di sbocco per le proprie merci, materiali e
immateriali che siano.
Rimanendo
sul piano strettamente italiano, l’impoverimento della struttura
produttiva e il crollo degli investimenti hanno aggravato un altro
fondamentale aspetto relativo alla produzione: la dipendenza tecnologica
dall’estero. L’Italia non soltanto è importatrice netta di materie
prime, ma oggi anche di tecnologia su un ampio spettro di settori.
Questa forma di subalternità produttiva non può essere scissa dalla
capacità anche solo redistributiva – di usare la tassa sui robot per
finanziare reddito – in un contesto globalizzato e di piena mobilità dei
capitali.
Disoccupazione tecnologica: liberazione dal lavoro o distribuzione del lavoro e controllo proprietà’
A
John Maynard Keynes si deve la definizione di disoccupazione
tecnologica, intesa come processo che avrebbe stravolto il rapporto tra
macchine e lavoro umano, nella direzione della riduzione dei posti di
lavoro attraverso l’intensificazione del progresso tecnologico.
L’intuizione di Keynes acquista, nella fase attuale del capitalismo
globalizzato, particolare interesse, attirando la curiosità del mondo
accademico e delle forze politiche. Un primo elemento che andrebbe
approfondito rispetto al rapporto tra processi di automazione e aumento
dei livelli di disoccupazione riguarda la trasformazione settoriale del
mercato del lavoro e la polarizzazione sempre più profonda tra lavoro
dequalificato e lavoro ad alto contenuto di competenze. In questo senso,
guardando al contesto italiano, risulta evidente che l’innovazione
tecnologica in ampi settori dalla grande distribuzione al delivery non
abbiano affatto ridotto la domanda di lavoro da parte delle imprese, ma
abbia invece allargato le differenze interne al mercato del lavoro,
spingendo sempre più verso una domanda di lavoro a bassi salari e privi
delle tutele sindacali minime. Il mutamento pare quindi più legato alla
composizione e alla qualità della domanda di lavoro piuttosto che alla
dimensione numerica e quantitativa.
Non
si spiegherebbe diversamente il ricorso massiccio a forme di lavoro,
già richiamate in precedenza, ad alta intensità di sfruttamento, come
testimoniato dall’impennata dei voucher, dei tirocini, del lavoro in
appalto e del lavoro gratuito. Nel contesto del nostro paese questi
elementi assumono ancora più pregnanza, tenuto conto dei bassi tassi di
investimento pubblico e privato in ricerca e sviluppo, allargando la
domanda di lavoro in settori a basso valore aggiunto.
La
tendenza alla compressione dei diritti del lavoro spiega l’emergere di
contraddizioni sempre più ampie tra processi di automazione e
composizione della forza lavoro, evidenziando una non linearità tra
robotizzazione e perdita dei posti di lavoro. Lungi dal richiedere meno
lavoro, l’introduzione di macchinari ad alto contenuto tecnologico
sembra dar ragione a Marx, che vedeva nell’introduzione delle macchine
un’intensificazione del comando sui tempi di lavoro e sulle condizioni
normative e salariali del lavoro. Il tema che sembra ineludibile diventa
quindi quello del controllo e del governo dei processi di innovazione
tecnologica, nella direzione di una diversa combinazione dei fattori
produttivi. Anche qui, il conflitto sull’organizzazione del lavoro e
quindi sull’allocazione degli investimenti, diventa il terreno
necessario per imprimere una direzione alternativa ai processi di
accumulazione. Ed è in questo quadro che misure di redistribuzione dell’orario di lavoro
possono svolgere una funzione di controllo sulla domanda di lavoro,
riducendo lo spazio dell’impresa nell’utilizzo di forza lavoro a basso
costo e priva di tutele giuridiche e sindacali.
Contro
la tendenza delle imprese ad utilizzare contratti di lavoro precari ed
alta intensità di sfruttamento, oramai indipendentemente dalle
fluttuazioni del ciclo economico, la riduzione dell’orario consente di
determinare un vincolo sull’organizzazione del lavoro – quanto e in
quanti si lavora – e sulla combinazione dei fattori produttivi – quali
investimenti. Una prospettiva diametralmente opposta rispetto ad una
tendenza manifestatasi prima con il decreto Poletti e poi con il Jobs
Act che hanno assicurato all’impresa piena disponibilità nel controllo
della forza lavoro. L’introduzione di politiche di redistribuzione del
tempo di lavoro consentirebbero inoltre di gestire nell’ottica dei
lavoratori e delle lavoratrici il governo dei processi tecnologici, i
quali senza un processo decisionale collettivo, che coinvolga quindi
anche i lavoratori, diventano terreno fertile per i vecchi e nuovi
capitani d’industria, interessati unicamente ad aumentare i profitti a
discapito dei salari.
Solo
riunendo le ragioni di un protagonismo nella sfera della produzione con
le rivendicazioni di un tempo liberato dal dominio del mercato è
possibile aprire una prospettiva alternativa ad un modello di società
che continua ad escludere larghi strati sociali dal pieno godimento di
diritti civili, politici e sociali.
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