mercoledì 22 marzo 2017

La corsa dei 300 per il tre per cento

Da Bersani ad Alfano, da Alemanno a Fratoianni, da Casini a Fitto, da Verdini agli ex di Scelta Civica. Un plotone di politici 
e di partitini si prepara all’epica battaglia: superare la soglia per entrare in Parlamento.

La corsa dei 300 per il tre per cento L'Espresso Susanna Turco
 
Si aggira sulla politica come quel pipistrello che svolazzando sbigottiva gli astanti nella kermesse renziana del Lingotto a Torino. Umbratile, inquietante, trasverso. In una parola: il proporzionale. Sistema che i nostalgici della Prima Repubblica invocano da decenni e che adesso - per via delle leggi elettorali ritagliate dalla Consulta - stende il suo profilo sulle prossime elezioni. Se le regole resteranno come sono, infatti, al prossimo giro almeno alla Camera (al Senato lo sbarramento è più alto) basterà superare il 3 per cento e poi - visto che il premio di maggioranza al 40 per cento è quasi inarrivabile - i giochi si faranno direttamente in Parlamento. Come ai tempi di Gava e di Altissimo. Lo scenario sta scombinando i quadri, scomponendo le alleanze e i partiti: si scinde il Pd, si scinde la sinistra; l’area centrista è un formicaio impazzito dei si salvi chi può; nel centrodestra condannato all’eterno tramonto del Cavaliere è una gara tra Pollicino in cerca di briciole da ammonticchiare. Perché il proporzionale è il regno dei fratelli coltelli, della guerra fratricida: il contrario del bipolarismo che favorisce le alleanze. Una festa per alcuni, un dramma per altri. Perché toccherà poi prenderlo, questo 3 per cento: e per poco che sia, per tanti è moltissimo. Basti ricordare la processione dei partiti a Palazzo Chigi, nel novembre 2014, quando si discutevano le soglie di sbarramento. A chiedere la grazia a Renzi, allora premier, per abbassare dal 4 al 3 per cento la soglia dell’Italicum andarono in sedici tra capi partito, capi gruppo, capi fazione. Scene cui conviene abituarsi.


ABBRACCI INCROCIATI
Basti del resto osservare che nel centrosinistra, dalla sentenza della Consulta di metà gennaio a oggi, le formazioni si sono raddoppiate. Il Pd ha preso due strade, due sono le sinistre, e questo solo per restare in Parlamento perché fuori pascolano fazioni raddoppiate di quasi tutto, dagli ex comunisti ai verdi. Le scissioni nuove si sono sovrapposte alle vecchie. Superate le correnti gravitazionali, lo spazio la luce eccetera, gli scissionisti di Sel guidati da Arturo Scotto, figli di Rifondazione e pronipoti del Pci, si sono ritrovati con gli scissionisti del Pd guidati da Roberto Speranza, figli dei Ds e pronipoti del Pci. L’immagine-simbolo è quella di un ex caposaldo di Rifondazione, Ciccio Ferrara, che a Montecitorio corre ad abbracciare Pier Luigi Bersani: entrambi erano consiglieri comunali del Pci negli anni Ottanta. Grandi emozioni e anche una possibilità in più di superare lo sbarramento, visto che Mdp, dato all’8-10 per cento alla nascita, è già sceso al 3,6 per cento secondo Ixè, al 3 secondo Tecné. Finita qui? Macché. È appena nato il gruppo di Sinistra Italiana capitanato da Nicola Fratoianni, dal quale si sono dissociati quelli di Scotto ma a cui si è invece associato in Parlamento il movimento “Possibile” di Pippo Civati («pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti» recita il comunicato, e ci mancherebbe). Un’altra sinistra più a sinistra dell’ex sinistra Pd, con ancora meno possibilità di superare lo sbarramento: accadde già nel 2008, quando la Sinistra arcobaleno non superò il 4 per cento e restò per cinque anni sbigottita, a guardare da fuori. Per questo, ma non solo, c’è chi come Civati spinge per una alleanza unica a sinistra del Pd, che vada da «Boccia a Che Guevara». L’obiettivo sarebbe «evitare non solo l’effetto Macron ma anche l’effetto micron». Difficile.



CAPRA CAVOLO E LUPO
È in fondo, quello a sinistra, il solito dilemma del contadino: come portare capre, lupi e cavoli da una parte all’altra del fiume? Se non si indovina la sequenza logica corretta, finirà coi Democratici che si mangiano i Progressisti, i Progressisti che divorano Sinistra italiana e i Cinque stelle che guardano dalla riva. Nell’incertezza del momento, dovuta anche alle primarie del Pd che andranno avanti fino ad aprile, quello che rischia meno di finir sbranato, par di capire, è Giuliano Pisapia. L’ex sindaco di Milano e ideatore di Campo progressista è al momento circonfuso di luce stile Beatrice dantesca. Nonostante l’attuale 2,3/4 per cento che gli attribuiscono i sondaggisti, viene tratteggiato come una sorta di Romano Prodi di sinistra, depositario di tutte le speranze, comunque l’unico capace di far lievitare i consensi. Lui però per ora non si sbilancia, si dice «un passo indietro», invita a guardare alto.

ANGELINO E IL COLPO D’ALA
Del resto, dice il saggio, anche in tempi di proporzionale se non punti al dieci per cento non prendi neanche il tre. Una lezione di cui Angelino Alfano porta i segni dolorosi. Iniziata l’avventura del Nuovo centrodestra, nel novembre 2013, veniva stimato al 14 per cento; adesso, i pronostici più rosei lo danno al 2,6 (dati Ixè) i meno rosei all’1,5 per cento (dati Techné). È la fatica del governare, direbbe probabilmente lui. Non che la realtà locale restituisca numeri diversi: alle ultime amministrative il Nuovo centrodestra ha eletto tre consiglieri in tutto. Si capisce che, messe così le cose, non abbia nessun interesse a ripensarci nemmeno Silvio Berlusconi che pure, nelle settimane del divorzio dal suo Delfino, sospirava cose del tipo «un giorno ci rincontreremo». Alfano naturalmente non si perde d’animo. A dicembre si è messo alle spalle il fallimento completo di Ap, ora dichiara ufficialmente chiusa l’esperienza di Ncd con la celebrazione della nuova svolta nominale, e in pratica tenta di dragare il dragabile. Tra gli ex centristi e gli altri alleati del Pd renziano.

SPERDUTI AL CENTRO
Nel gruppo di Ala-Scelta civica c’è in effetti un clima indicibile. Il capo Denis Verdini, appena condannato a nove anni in primo grado, non sa nemmeno se si ricandiderà. I suoi uomini attendono e si guardano intorno. L’altro ramo del gruppo, vale a dire in sostanza l’ex viceministro Enrico Zanetti, rimasto a secco di posti di governo sta bussando freneticamente alla porta del Pd: ma è quasi impossibile che lo facciano entrare. Non soltanto per il suo profilo specifico, ma pure perché la legge elettorale non aiuta: senza premio di maggioranza, anche i partiti grandi faticano a ospitare nella propria pancia candidature a grappoli di esterni. Così, pure lo schema che da anni portano avanti alfaniani come Beatrice Lorenzin - cioè farsi ricandidare col Pd - al momento è circondato da un punto interrogativo. Col caro, vecchio Porcellum, il premio di maggioranza e il meccanismo delle liste collegate consentivano di far spazio alle formazioni satellite. Come il Centro democratico di Bruno Tabacci, che da alleato Pd è entrato alla Camera con lo 0,49 per cento , si ritrova con sei deputati, e ha stretto alleanza con gli ex montiani di Lorenzo Dellai (Democrazia Solidale), per un totale di 14 deputati. I quasi invisibili del Parlamento, come i furono montiani “Civici e innovatori”: gente che potrebbe essere determinante al prossimo giro, sempre che riesca a rientrare.

CASINI COME CLAUDIO VILLA
C’è da dire che, dopo il momento dell’apoteosi di Mario Monti, adesso dalle parti dei centristi il rischio è quello dell’estinzione. Il paradosso è che sono decenni che lottano e argomentano per tornare al proporzionale, e adesso che finalmente pare sul punto di tornare, non basterà nemmeno a salvarli. «Parlare oggi di Pier Ferdinando Casini è come dire che Claudio Villa fonda un gruppo rock. Cose fuori dal tempo», dice un parlamentare di centrodestra. Non domo, Casini, dopo essersi scisso dall’Udc che aveva fondato, ha battezzato “Centristi per l’Europa”, un nome nel quale anche l’uso del plurale appare eccesso d’ottimismo. Ne fa parte anche l’inseparabile Gian Luca Galletti, mansueto ministro dell’Ambiente. L’Udc rimasto in mano a Lorenzo Cesa, a sua volta, nei sondaggi mostrati a “Carta Bianca” due settimane fa si situava al di sotto della dicitura “Altri”: tra lo 0,6 e l’1 per cento, a voler essere precisi. Comunque, nel tentativo di costruire una specie di “blocco anti Salvini” con pure Berlusconi, niente può dirsi perduto. Ragion per cui ci si vede a pranzo, tra centristi di vecchio e nuovo conio, ma anche con new entry come Stefano Parisi.

I SEDOTTI DA SILVIO
L’ex competitor di Sala nella corsa al comune di Milano è l’ultimo arrivato nella congrega dei sedotti e abbandonati - ma mai davvero abbandonati - da Silvio. Di certo non nel caso di Parisi, che ha fatto nascere il suo Energie per l’Italia (anche qui si noti il plurale d’ottimismo, come per Casini), ha una sede a Milano e un sito internet, gioisce di suoi asseriti 120 circoli in giro per l’Italia. L’obiettivo suo è naturalmente quello di tutti, ossia rigenerare il centrodestra. Nell’idea di un proporzionale però lui pare trovarcisi una meraviglia, visto che naviga «in parallelo con Berlusconi» e anzi - secondo taluni antichi merluzzi del centrodestra - tutt’ora prende sottobanco ordini da lui. Non sarebbe d’altra parte l’unico caso di apparente competitor che è in realtà un alleato: quello dei movimenti civetta è uno dei meccanismi classici dell’ex premier, tutt’ora in voga.

BRICIOLE AZZURRE
Intorno all’ex impero di Forza Italia naviga una costellazione di formazioni e partitini dalla forza poco più che regionale da far spavento. E, spaventati, pure loro attendono come al solito di capire cosa vorrà fare il Cavaliere, che terrorizzando tutti ha detto di voler regalare alla società civile almeno due terzi dei capilista, i posti più sicuri. Non sono più infatti i tempi in cui gli apparentamenti consentivano diritto di tribuna anche sotto il 2 per cento. Ragion per cui uno come Raffaele Fitto, che si scisse da Berlusconi nel 2015 per fondare i Conservatori e riformisti, forte in Puglia ma quasi inesistente fuori, ha fondato una cosa che si chiama “Direzione Italia”. Dove oltre all’ex radicale Daniele Capezzone ci sono personaggi del livello dell’inaffondabile Michele Iorio, già governatore molisano di centrosinistra e di centrodestra, e dell’ex centrista Luciano Ciocchetti: chiedono primarie e maggioritario, in pratica aspettano che accada qualcosa. Mentre Idea, intuizione dell’ex Ncd Gaetano Quagliariello e dell’ex aennino Andrea Augello, pare non attendere altro che un cenno dall’area berlusconiana che mai del resto sin qui li ha delusi. C’è da notare in effetti un’asincronia: mentre a sinistra il momento delle scissioni è ora, a destra quella fase ha avuto il suo apice nel 2015. Quando accadde persino alla Lega, con l’espulsione di Flavio Tosi: lui però, stando alle ultime, pare aver accantonato le ambizioni nazionali per il suo “Fare”, con buona pace dei suoi quattro parlamentari.

CORIANDOLI NERI
A destra, si tenta di mettere insieme i coriandoli: stando molto a guardare, per poi ferinamente fare la mossa all’ultimo. Ad ogni modo, dopo la fine ingloriosa di quasi tutti i protagonisti dell’era di Alleanza Nazionale, l’unica in grado di superare lo sbarramento sembra essere Giorgia Meloni. Con Fabio Rampelli e i suoi Fratelli d’Italia, titolare del 3,6 per cento alle Europee del 2014, del 12,3 per cento a Roma nel 2016, alla guida di 11 deputati, la leader di Fdi è la sola proveniente dalla tradizione di Via della Scrofa a poter pensare di sedersi al tavolo grande. Gli altri stanno a guardare, sperando che lei tenti di fare una qualche concorrenza a Berlusconi. Arrancano, molto indietro, gli ex colonnelli Francesco Storace e Gianni Alemanno, che si sono appena fusi in un “Movimento nazionale per la sovranità” che per i sondaggi supera addirittura lo 0,5 per cento: vorrebbero anche loro federarsi, bisognerà vedere se trovano qualcuno che li voglia. Meloni ha già fatto sapere di no. Ma alla fine potrà sempre spuntare un Berlusconi, a valorizzarli.

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