mercoledì 5 febbraio 2014

Messico. Chiapas, vent'anni di rivoluzione La vita quotidiana degli zapatisti.

Lavorano in campi rigorosamente comunitari. Sparpagliati in piccoli villaggi in cui alcool e droghe sono banditi. Ma dove arrivano le radio indigene, le scuole, la sanità. Sono i 50mila messicani che hanno seguito il sogno del Sub Comandante Marcos. Poveri. Ma ancora convinti. Ecco come stanno festeggiando il loro anniversario.


{}Sveglia alle cinque. Colazione con zuppa di fagioli neri e tortillas fatte in casa. Poi, si lavora nei campi: a tagliare “frijoles”, principalmente, o raccogliere pannocchie. È l'inizio di una giornata qualunque in una comunità del Chiapas, nel Sud del Messico. Un piccolo villaggio di montagna dove vivono 80 famiglie. Tutte zapatiste, dal nome della rivoluzione che 20 anni fa – esatti: era il primo gennaio 1994 – portò indigeni e contadini a ribellarsi al governo centrale. I volti celebri del “llevantamento”, l'insurrezione degli anni '90, come quello coperto dal passamontagna del Sub Comandante Marcos, non si sono fatti vedere, per questo anniversario. Anziché organizzare marce, parate o discorsi per celebrare 20 anni di rivolta e 10 di autonomia, grazie alla quale oggi 50mila persone vivono in villaggi d'ispirazione marxista, gli zapatisti hanno preferito invitare osservatori internazionali a toccare con mano l'eredità delle loro battaglie.

Oltre seimila sostenitori da tutto il mondo hanno vissuto per alcune settimane nei villaggi zapatisti, per riportare in patria la realtà del “più longevo laboratorio rivoluzionario contemporaneo”, come lo definisce Alberto, un attivista di Milano che è appena tornato dal Chiapas e sul ventennale sta scrivendo un libro per la casa editrice Agenzia X . «Gli zapatisti sono stati uno dei simboli più amati dei no-global, dei controvertici, un modello mitizzato delle lotte antiliberiste», racconta: «Tutta questa attenzione internazionale è sempre rimasta legata alle immagini dei cortei, delle parate, delle battaglie. Quando nel frattempo la rivolta si è fatta concreta: e decine di migliaia di persone si son messe silenziosamente a vivere secondo i loro principi».Tutto inizia il primo gennaio 1994, quando l'Ezln - l'esercito zapatista di liberazione nazionale - occupa cinque municipi del Chiapas, portando le richieste di indigeni e contadini che protestavano per ottenere la riforma agraria. Poche settimane di battaglia bastano ad allontanare l'esercito nazionale dalle montagne della regione, ostili al governo centrale. E dopo aver tentato invano di far accogliere le loro rivendicazioni a Città del Messico, nel 2003 i ribelli proclamano l'autonomia di cinque zone, chiamate “caracoles”, chiocciole, come uno dei loro simboli. Da allora, si organizzano in “puebli” in cui la terra è comune, dove non esiste proprietà privata, tutti i beni sono collettivi, l'alcool e le droghe banditi, le donne devono essere trattate al pari degli uomini, e i rappresentanti vengono eletti ogni due anni ma devono rispondere e discutere con tutti gli abitanti ogni decisione. «Sono poveri, non si può negare», racconta Alberto: «Hanno una dieta misera, spesso manca la corrente, le case sono ultra-basilari. La loro unica fonte di reddito sono i campi. Ma rispetto a vent'anni fa è un abisso: i loro genitori, loro stessi, negli anni '80, erano schiavi. Contadini sottopagati che si spaccavano la schiena anche 10, 12 ore al giorno. Ora continuano a mangiare solo mais e fagioli, ma lavorano molto meno, rimettendo i prodotti alla comunità, e non a dei lontani latifondisti. E soprattutto hanno scuole ed ospedali che qui non erano mai arrivati».
I prodotti del lavoro nei campi, a cui partecipano tutti, anche i ragazzini, sono divisi in tre: un terzo alla famiglia, un terzo alla comunità e un terzo alla vendita per comprare quello che serve al villaggio. Nel pomeriggio l'attività principale è ascoltare la radio. Non quella commerciale però: ogni “caracol” ha la sua radio comunitaria, dove si discutono i problemi, si trasmette musica “rivoluzionaria”, si raccontano parabole che mescolano le tradizioni indigene alla fede cristiana (già, sono convintamente cristiani anche moltissimi contadini zapatisti). A scuola si impara lo spagnolo, che gli indigeni non hanno mai parlato, si studia matematica e poi storia, «anche qui, non quella “ufficiale”», spiega Alberto: «Si sono posti il problema: come facciamo a insegnare i nostri figli la stessa storia che giustifica gli “sfruttatori”? Il risultato è ancora in fieri, e può essere interessante come pericoloso. È una sorta di revisione della cultura messicana che dà più spazio al mix di marxismo, cultura libertaria e tradizione indigena che ispira le comunità».
In questi piccoli mondi è cresciuta ormai un'intera generazione, che sta compiendo appunto vent'anni: «I ragazzi che ho conosciuto erano molto orgogliosi della loro appartenenza alle comunità», racconta Alberto: «Ma allo stesso tempo curiosi, e di sicuro non immuni alle mode. Nei villaggi gli osservatori internazionali arrivano spesso, portando le loro idee, le loro esperienze, oltre a cellulari zeppi di foto, e nei paesi più grossi coesistono famiglie zapatiste e altre che hanno voltato le spalle alla rivoluzione per avere televisione e aiuti di Stato. Per cui non vivono isolati dall'esterno». Ma nonostante questo restano convinti. E saranno loro a determinare che ne sarà, dello zapatismo, nei prossimi vent'anni.

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