Il
neoliberismo non è solo una teoria economica in crisi ma anche un
progetto politico che vuol ridisegnare la società e cambiare «l’anima»
di uomini e donne. Un’intervista con Christian Laval, in Italia per
presentare il volume «La nuova ragione del mondo» scritto insieme a
Pierre Dardot.
ilmanifesto di Benedetto Vecchi
Come un’araba fenice, il neoliberismo rinasce sempre dalla sue
ceneri.. Non c’è nessun compiacimento nel segnalare la sua
«resistenza» rispetto le crisi che ha conosciuto. Anzi, la crisi è il
contesto in cui mostra capacità di «innovazione». È da queste
premesse che il libro La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi)
di Pierre Dardot e Christian Laval prende le mosse. L’analisi dei due
studiosi france è circoscritta alle realtà capitalistiche
europea e statunitense, rinviando in un secondo tempo l’analisi dei
paesi emergenti — Cina, India, Brasile, Sudafrica -. Questo non
significa che il saggio — al quale è stato dedicato il numero
dell’inserto settimanale «Alias» del 30 Novembre 2013 — non aiuti
a delineare una critica rigorosa a un regime di accumulazione
capitalistica che ha una vocazione «globale». Quello di Dardot
e Laval non è infatti una analisi del neoliberismo come modello
economico, bensì come progetto di società che ha come condizione
preliminare la «formazione» di un «uomo nuovo», l’individuo
proprietario. È questo il punto di partenza dell’intervista
condotta in vari appuntamenti con i due autori, ma che si è poi
concretizzata nelle risposte inviate da Christina Laval durante le
ultime correzioni al nuovo libro scritto con Pierre Dardot dedicato
al «comune».
«La nuova ragione del mondo» è un affasciante affresco del
neoliberismo. Molti economisti e politologi avevano sostenuto
che con la crisi economica, il neoliberismo avrebbe lasciato il
passo a politiche keynesiane. A sei anni dalla crisi, il
neoliberismo continua a costituire il modello sociale, politico
e economico dominante. Quali, secondo lei, le ragioni di una tale
capacità di sopravvivere alla crisi?
La frase, che apriva la prima edizione francese del nostro libro,
nel 2009, era «il neoliberismo non è morto». Era un modo di
rispondere a tutti quelli che, in seguito al fallimento di Lehman
Brothers, si erano subito precipitati a suonare il requiem della
«fine del neoliberismo» (come recitava il titolo di un famoso
articolo di Joseph Stiglitz dell’epoca). Oggi ce lo siamo già
dimenticati, ma all’epoca molti economisti e uomini politici
leggevano la crisi come l’atto di morte di una «ideologia», quella
neoliberista, appunto, che aveva condotto a numerosi «eccessi» e
«abusi». Invece, le nostre analisi sulla storia e sulla natura
profonda del neoliberismo ci dimostravano che questa crisi non
rappresentava affatto «la fine del neoliberismo», ma una sorta di
malattia grave che, da sola, non fermava lo sviluppo di ciò che
abbiamo definito «la nuova ragione del mondo».
Le analisi «alla Stiglitz» preannunciavano il ritorno a Keynes
e all’intervento statale. E lo Stato, effettivamente,
è intervenuto molto dopo il 2009, perfino massicciamente, in
alcuni casi, ma questo intervento non è andato nel senso auspicato da
Stiglitz. Lo Stato, infatti, è intervenuto per salvare la finanza
erodendo i meccanismi di protezione sociale, la sanità, la scuola
e il diritto al lavoro. La metamorfosi della crisi del debito privato
in crisi del debito pubblico, in Europa, ha dato vita a una
radicalizzazione del neoliberismo, che ha funzionato come un
circolo vizioso in cui gli effetti negativi della concorrenza, della
finanziarizzazione e delle diseguaglianze vanno
sistematicamente a rinforzare le stesse cause che le hanno
prodotti. Lo vediamo bene adesso che l’Unione Europea, con il discorso
delle «riforme strutturali» e le politiche di austerità, cerca di
accelerare una trasformazione neoliberista della società.
Nel volume vi soffermate molto sul concetto di
«governance», illustrando il passaggio, e le mutazioni, che il
concetto ha avuto passando dall’impresa allo stato. È come se la
politica abbia mutuato dall’economia la gestione dello Stato. Siamo al
vecchio adagio marxiano sullo Stato garante del regime di
accumulazione capitalista, oppure assistiamo a una
trasformazione radicale del «politico»?
Non è una novità che lo Stato si faccia garante dell’accumulazione
capitalistica. Però è importante capire che questa funzione non
è svolta sempre allo stesso modo. Finora, infatti, il ruolo di
«garante» implicava che lo Stato affermasse la sua posizione
esteriore e mostrasse preoccupazione per l’interesse generale
a scapito degli interessi capitalistici particolari. La novità
di questi ultimi tempi, invece, è che lo Stato diventa un calco
dell’impresa e fa dell’impresa il suo modello ideale. Questa è una
delle grandi innovazioni del neoliberismo rispetto al liberismo
classico.
Contrariamente a quello che si crede spesso, il neoliberismo
non rappresenta alcun ritorno al presunto mercato «naturale». Nei
fatti, oltre che nelle giustificazioni, è possibile individuare
un progetto costruttivista che presuppone un’intervento attivo
dello Stato per trasformare la società e l’economia. Ma questo
interventismo si rivolge anche contro se stesso: lo Stato cambia
forma e funzione mano a mano che si sviluppano le politiche
neoliberali. Le cosiddette «riforme del welfare», per esempio,
sono politiche pubbliche con l’obiettivo di produrre una sorta
autotrasformazione dello Stato, che incorpora discorsi
e pratiche, modalità di valutazione e di gestione provenienti dal
settore privato. Questo «Stato imprenditoriale» o «manageriale»
tende a modificare le barriere esistenti tra settore pubblico
e privato, nonché tra diritto pubblico e privato. Volendola
spiegare, questa autotrasformazione, basterebbe riconsiderare
il ruolo affidato delle politiche neoliberali. Precorrendo
i tempi, Margaret Thatcher diceva che bisognava cambiare «l’anima
e il cuore» della gente. E cambiare il cuore implica trasformare le
condizioni e le situazioni nelle quali le persone vivono, metterle
fintanto che è possibile in condizione di concorrenza,
rinchiuderle in schemi di ragionamento fissi fondati sulla logica
dell’homo oeconomicus . In una parola, lo Stato non deve più
soltanto «rispettare» il mercato come ai bei tempi del liberismo
classico, ma ora deve adoperarsi per costruire ovunque situazioni
in cui gli individui sono obbligati a introiettare una logica di
concorrenza o di profitto. In altri termini: l’accumulazione
capitalistica, la concorrenza, il profitto non sono soltanto
obiettivi e criteri economici, ma tendono a diventare norme
sociali che trascendono gli stretti ambiti dell’economia.
Nel libro sostenete che il processo di costruzione
dell’Europa è stato segnato da una visione neoliberista. Ora quel
processo segna un passaggio decisivo. Nelle prossime elezioni,
infatti, la crescita di movimenti populisti (sia di destra che di
sinistra) potrebbe determinare un cambiamento profondo nella
composizione del parlamento europeo, al punto che sono in molti
che paventano la possibilità di una maggioranza relativa degli
euroscettici. Questo vuol dire che non è possibile immaginare
un’Europa al di fuori del regime di accumulazione neoliberista?
Il nostro lavoro intende mostrare su quali basi è stata costruita
l’Europa. È molto importante ricordare il ruolo giocato
dall’«ordoliberalismo» nella costruzione europea. Questa dottrina di
origine tedesca ha riscosso molto successo nelle élites
europee a partire dagli anni Cinquanta e oggi mostra la corda. Al di
là dei vaghi richiami alla pace europea, all’indomani della Seconda
Guerra Mondiale, è stata questa dottrina a costituire il vero
fondamento dell’Europa, che ha scientemente costruito un «mercato
concorrenziale» con strumenti giuridici e istituzioni
politiche e monetarie concepite a questo scopo. Sullo zoccolo
duro di questa forma di mercato si sarebbe costruito un ordine
politico e un impianto costituzionale interamente votati
a preservare la logica della concorrenza. Certo, la crisi europea
ha cause più globali, ma è anche la conseguenza della messa in opera
di questa concorrenza interna e dei dogmi della stabilità
monetaria. Si sente spesso dire che l’euro è stato un’errore teorico
che ora stiamo pagando ora molto caro. Per noi, la questione
fondamentale si colloca più a monte rispetto a questa questione:
l’aver voluto costruire l’Europa su un modello di mercato, senza
concepire la politica altrimenti che come amministrazione del
mercato e della moneta, concependo il popolo europeo soltanto come
un insieme di consumatori, tutto questo ha significato
scavalcare le frustrazioni di milioni di persone L’exploit
delle prospettive sovrainiste e localiste, del nazionalismo
e della xenofobia diventa sempre più probabile, purtroppo, con
l’aggravarsi della crisi sociale. La scomparsa dello spirito di
solidarietà internazionalista a sinistra è molto inquietante.
La reinvenzione di una sinistra nel vero senso del termine in Europa
dovrà passare per una rifondazione del progetto europeo su
nuove basi.
All’altra estremità del potere neoliberista, c’è il «soggetto».
Questo è il senso della frase della Thatcher che citavamo prima. In
una società che obbedisce a una logica di mercato, l’individuo si
adatta, si trasforma, diventa un altro soggetto. Deve funzionare
come un’impresa, deve diventare «imprenditore di se stesso».
Assistiamo così alla diffusione, negli ambiti più disparati, di
norme di condotta e di forme di esistenza strettamente in
connessione tra loro. Il malato mentale deve «gestire» la propria
salute, così come il delinquente deve imparare a «gestire» il suo
rapporto con le leggi, o le sue «vicende giudiziarie», esattamente
come lo studente deve «gestire» il suo percorso di orientamento
universitario per «ottimizzare» l’investimento rappresentato
dai suoi studi superiori. Ma stiamo attenti, perché questo non è un
modello o una norma imposti dall’alto da uno Stato totalitario.
Certo, è vero che si assiste un po’ ovunque nel mondo che i politici
obbediscono sempre di più a questa norma di condotta
imprenditoriale, uscendo in questo senso dal solco della
democrazia liberale, ma non sono i politici a imporre il modello ai
cittadini. I politici, anzi, partecipano come gli altri al sistema
delle norme sociali che amministrano il rapporto con gli individui
con se stessi e con gli altri. È forse questo il lato più
affascinante, ma anche più inquietante, del neoliberismo: il modo
in cui la soggettività venga rimodellata dall’interno e sia
portata ad allinearsi con la razionalità capitalistica.
È questo, d’altronde, il senso del concetto di «capitale umano»,
a cui si attinge oggi a piene mani per giustificare le politiche
pubbliche negli ambiti più diversi.
Insistete molto su come il rischio sia un aspetto rilevante
della fabbrica del soggetto neoliberista. Mi sembra che anche il
debito, meglio la sua gestione, abbia assunto un ruolo determinante.
Non è così?
Il debito come modalità di governo degli individui è al centro di
alcuni recenti lavori sul neoliberismo, come quelli di Maurizio
Lazzarato o di David Graeber. Per noi, questo è un aspetto
senz’altro importante del neoliberismo, ma non è che una parte di
quel fenomeno più generale che è rappresentato, appunto, dalla
trasformazione degli individui in soggetti statistici, in
soggetti «contabilizzabili». La dipendenza dal meccanismo del
credito è solo un aspetto di un’azione più generale operata sulle
soggettività. Si tratta di modellare gli individui dipendenti da
norme contabili e finanziarie, collocandoli di volta in volta in
situazioni in cui si sentono obbligati a calcolare il rendimento
economico delle loro scelte. Il miglior esempio di tutto questo sono
gli studenti che, un po’ ovunque del mondo, si trovano ad
affrontare l’aumento delle tasse di iscrizione all’università dovendo
dunque porsi il problema di calcolare il ritorno dell’investimento
finanziario rappresentato dai loro studi.
Questa contabilizzazione ha l’obiettivo di governare gli
individui in modo tale da renderli più efficienti, più
performanti, attraverso la loro «responsabilizzazione
contabile». È un modo di rinforzare l’autosorveglianza di ogni uomo
o donna, obbligati a superare costantemente i propri risultati per
non subire le sanzioni legate alla mancanza di efficienza e per
beneficiare delle ricompense date alla performance ottimale.
Le conclusioni del vostro libro parlano della fine della
democrazia liberale. Qual è allora la forma di governo nel
neoliberismo?
La democrazia liberale era fondata su una separazione netta tra
sfera pubblica e sfera privata, garantita da solide barriere
giuridiche e istituzionali tra il mondo politico e l’universo
economico. È vero che questa separazione era una finzione, che
i marxisti avevano subito individuato e denunciato. E tuttavia
tale finzione aveva comunque un effetto reale, quello di evitare che
la politica si riducesse a una mera difesa degli interessi
dominanti. Anzi, il «gioco» politico che si veniva a creare in questo
modo ha anche permesso, storicamente, di contenere gli interessi
privati entro limiti ben definiti, sottomettendoli all’interesse
generale. Con il neoliberismo, invece, la sfera politica si
modella interamente sulla realtà economica, e non soltanto difende
gli interessi delle classi dominanti e delle grandi imprese, ma
trasforma la società intera in uno spazio integralmente sottomesso
all’imperio della razionalità capitalistica. Oggi la politica
appare sempre più uniformata alla logica della concorrenza. La
«competitività» diventa il principio politico supremo, mentre
principi come la «cittadinanza» e la «solidarietà» spariscono
sempre di più dalla scena. Lo sfacelo intellettuale della sinistra
storica e parlamentare è uno dei sintomi principali di questo
processo di riduzione della politica alla logica economica. Per
continuare a dare l’idea di una presenza, la sinistra ha preferito
schiacciarsi completamente sul modello imprenditoriale.
L’imprenditore ha preso ormai il posto della classe operaia, la
«performance» quello della «giustizia sociale». Volendo
modernizzarsi, la sinistra non ha fatto altro, in realtà, che
suicidarsi, ogni giorno un po’ di più. Per questa ragione non si può
dire che esista una forma di governo specifica del neoliberismo,
e neanche un regime politico che gli sia proprio, perché esso può
sfruttare a piacimento qualunque forma politica: lo stile
manageriale può andare a braccetto anche con un regime politico
autoritario. L’elemento essenziale, dunque, è proprio questo
processo di svuotamento della democrazia politica, che legittima
a parlare di una nuova ragione politica ademocratica.
Ha collaborato Riccardo Antoniucci
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sabato 22 febbraio 2014
Libro. «La nuova ragione del mondo» Christian Laval e Pierre Dardot (DeriveApprodi)
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