domenica 31 ottobre 2021

Sulle tracce di Tiziano: un prezioso incontro con Folco Terzani

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In un mondo dove la natura è sempre più spesso un arredo che sbuca clandestinamente dall’asfalto, quasi ti sorprende un posto come l’Orsigna, dove invece il verde è dappertutto e case e strade quasi un diversivo che spunta qua e là tra piante e alberi.

Federico Traversa con Folco Terzani – foto di Daria Cadalt

Dell’Orsigna e del suo borgo arroccato sull’Appennino toscano, una mezz’ora di tornanti salendo da Pistoia, difficilmente sarei mai venuto a conoscenza non fosse stato per i libri di Tiziano Terzani, che chiamava il posto “il mio Himalaya”. Tiziano ci era stato da bambino per vincere i suoi problemi d’asma, era rimasto affascinato dalle storie di streghe e fantasmi che soffiano di bocca in bocca tra questi boschi e, quando il suo viaggio su questa terra era prossimo alla fine, sempre qui all’Orsigna aveva deciso di stabilirsi per aspettare l’ultima grande trasformazione.

Si era costruito una casa in cima a un verde pendio, tra alberi e prati, a cui aveva aggiunto un piccolo capanno dai colori sgargianti, che affettuosamente chiamava gompa, come fanno i tibetani, un popolo che l’aveva stregato durante i suoi viaggi. Chi ha visto uno dei tanti documentari su Terzani, oppure il film tratto da “La Fine è il mio Inizio”, sa bene di cosa parlo. E altrettanto bene capirà la mia emozione quando il figlio Folco mi mostra l’interno della struttura, le cose lasciate esattamente come erano, con i tantissimi volumi a cui Tiziano tanto teneva – riconosco al volo una rara edizione di un libro di Gurdjieff e un’altra di Krishnamurti – le statuette indiane, una foto con Sua Santità il Dalai Lama… Istantanee di una vita straordinaria. A fianco, un’altra piccola gompa, con solo una porticina e un letto. È qui che è successo, è qui che Tiziano è partito per l’ultimo viaggio. Riconosco il suo berretto viola, la giacca in lana bianca, le sue scarpe.

È tutto com’era, immobile da quel giorno. Qui babbo lo senti, gira ancora tutto attorno” mi dice Folco.

Tiziano e Folco Terzani – archivio privato

Di fronte al giaciglio un’immagine di Yama, il Deva della morte, “colui che irrimediabilmente trattiene con sé”, la divinità indiana che accompagna le anime da un mondo all’altro.

Tiziano, quando seppe che la malattia non gli avrebbe dato tregua, la volle lì per tenere bene a mente il suo futuro più prossimo, che accettò con grande coraggio e serenità.

Ci spostiamo di una trentina di metri lungo il prato, e sediamo intorno al duni per il saluto al sole. Folco lo fa ogni giorno, verso il tramonto: è il suo modo per riallinearsi con il ciclo della vita e della natura.

Ci siamo conosciuti l’anno scorso, quando l’ho intervistato su Radio Popolare per l’uscita della versione redux e gratuita di “La Fine è il mio Inizio”. In quel libro intervista, che era stato proprio lui a curare, suo padre parlava in modo chiaro e aperto ai giovani, e in tempi di pandemia e di perdita della bussola collettiva, quelle parole potevano essere fonte d’ispirazione. E così Folco aveva deciso di sfoltirlo di alcune parti un po’ troppo “storiche” in modo da renderlo più accessibile ai ragazzi di questi nostri tempi veloci, e poi metterlo in free download.

Durante la promozione lo avevo contattato e ci eravamo “incontrati” per una lunga intervista. Uso le virgolette non a sproposito: eravamo in pieno lockdown, e l’incontro fu solo video, grazie a Skype.

Mentre arde il fuoco del duni preparato molti anni prima da Baba Cesare – il mistico italiano protagonista di “A Piedi Nudi sulla Terra”, il primo libro firmato da Folco – lui mi racconta che sono seduto sulla pelle dove qualche settimana prima stava Elio Germano, venuto all’Orsigna per realizzare l’audiolibro proprio del volume scritto con Baba Cesare. Quel libro, intenso e fortissimo, una decina d’anni fa seppe muovermi qualcosa dentro e se non lo avessi letto probabilmente oggi sarei una persona diversa, certamente non seduta su una pelle d’animale a salutare il sole insieme all’ultimo sadhu della valle.

Ci raggiungono mia moglie Daria e Geia, la moglie di Folco. Geia è di papà indonesiano e mamma fiorentina, ha dei capelli neri, lunghi e bellissimi, e fa un sacco di cose. I suoi involtini vietnamiti, tanto per dire, sono una carezza alla lingua. Intanto io e Folco ci avviciniamo a un’altra gompa, un po’ più distante dalla casa.

Questa è la mia” mi dice “il mio posto tranquillo”.

L’interno della gompa di Folco Terzani – foto di Daria Cadalt

Entriamo, ci sediamo sul materasso indiano, e quando chiude la porta sembra davvero di trovarsi altrove, o perlomeno in un universo meno caotico e più coerente. Una minuscola finestra mostra le verdi cime tutto intorno. Alle pareti tante immagini sacre.

Ultimamente mi fermo a fissare questa” dice Folco indicandone una, “credo sia Tara Bianca. Ma alla fine non importa chi sia, capisci?”.

Annuisco in silenzio. Qui dentro sento una grande pace, un silenzio quasi ovattato che mi avvolge. È speciale. Davvero speciale.

Folco ogni mattina si sveglia verso le quattro o le cinque, scende nel prato qui davanti, accende il fuoco e lo osserva per ore. È la sua meditazione quotidiana, il suo riconnettersi con la vita. Dopo tanti viaggi e tante esperienze potenti, a partire da un lungo periodo giovanile a lavare e accudire i moribondi in India con Maria Teresa di Calcutta, oggi ha capito che la vera essenza della vita sta nello sbucciare e semplificare. Solo così si arriva a quel “conosci te stesso” di cui parlava l’oracolo di Delfi.

Quando gli chiedo quale sia il consiglio più prezioso che gli abbia dato Tiziano, mi regala una risposta che sarebbe da tatuare sulla lingua di ogni padre, in modo che nessuno si scordi di regalarla ai propri figli: “Vivi una vita. Una vita in cui ti riconosci”.

Qualche ora dopo mi trovo seduto con Daria e i bambini a La Selva, il ristorante albergo gestito da Aldo e la moglie Silvia, due amici di Folco.

Il borgo di Orsigna – foto di Daria Cadalt

Ha una stella sola ma ne merita mille” mi aveva detto raccomandandomelo. E aveva ragione. Stanza pulite, sobrie, che profumano di menta e rosmarino e aprono le loro finestre su montagne strepitose. La sera all’Orsigna è magica, le stelle sono grandi e brillano come certi pesci sul fondo del mare e il silenzio è spesso, un piacere così raro e insolito che sai già finirai per rimpiangerlo.

Ordiniamo dei tortelli burro e salvia che sono poesia e, mentre ne reclamiamo un secondo piatto, mi guardo in giro. Tiziano è dappertutto. Ci sono tante foto sue, di Folco e degli interpreti di “La Fine è il mio Inizio”. A fianco a una foto incorniciata di T., riposa una pila di libri suoi e di Folco; riconosco “In Asia” , un’edizione estera di “Un altro Giro di Giostra” e “A Piedi Nudi sulla Terra”. Con sorpresa c’è anche una copia del mio “Intervista col Buddha”, che nel pomeriggio avevo regalato all’hotel per sdebitarmi della splendida accoglienza.

L’alba all’Orsigna è persino più magica della sera, la luce rarefatta del primo sole crea una ragnatela  di chiaroscuri che regala poesia e tempi lenti a tutto quello che vedi. Attraversiamo i boschi, tagliando tra gli alberi millenari verso il centro del paese, anche se definirlo paese è quasi un azzardo. È più che altro un avamposto di civiltà arroccato fra le gole. Qualche casetta, una specie di emporio, un bar, un vecchio molino, lo scroscio del fiume che sale da sotto un ponticello di legno. E verde, verde, verde dappertutto.

Circa 100 anime abitano l’Orsigna in inverno. Una di queste si chiama Antonietta. Ha 74 anni e vive qui da sempre. Prima col marito e i figli, adesso che il marito Pietro è mancato e i figli abitano altrove, è rimasta da sola, ma di andarsene dall’Orsigna per una vita più comoda in appartamento a Pistoia non ci pensa nemmeno.

foto di Daria Cadalt

È questa casa mia, in città non mi trovo. Un giorno o due può andare ma poi mi manca stare qui” dice quasi rassegnata.

Posso capirla. Quando Antonietta viene a sapere che siamo amici di Folco, diventa ancora più loquace.

Folco è un bravo ragazzo, ha il cuore buono. Mi aiuta sempre quando lo vedo...”

Inevitabilmente si finisce per parlare anche di Tiziano.

L’ho conosciuto che era un giovanotto, veniva qui d’estate. Era bellissimo ma strano. E strano lo è rimasto, aveva un mondo tutto suo dentro. E ha fatto tanto per l’Orsigna. Lui e mio marito erano amici, si volevano bene”.

Antonietta mi racconta che Pietro faceva l’elettricista e quando venivano le televisioni per intervistare Tiziano, era a Pietro che si rivolgeva per farsi montare le luci per le riprese.

Anche se alla fine non ne aveva più voglia, ci diceva spesso che voleva ritirarsi e che se accettava di parlare e spendersi ancora pubblicamente era solo per i ragazzi”.

È tipico. Quando finalmente capisci il mondo, decidi di abbandonarlo e chiamarti fuori dalla lotta, consapevole che l’unico cambiamento possibile è quello interiore. Ma attenzione: non è una fuga passiva. Si tratta solo di agire su un altro aspetto della natura. Un vecchio saggio indiano diceva che perché la foresta sia verde tutti gli alberi devono essere verdi. Altrimenti la magia non riesce. E come vi ho già detto, quassù all’Orsigna il verde è dappertutto…

di Federico Traversa

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