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Mancano pochi minuti alle 20 di martedì sera, quando il presidente del Consiglio, salta su dalla poltroncina e abbandona la Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi, comunicando ai leader di Cgil, Cisl e Uil che le richieste che hanno avanzato sono troppe e che se ne va per rispettare un altro impegno, ovviamente prioritario.
C’è da immaginare che abbia anche sbattuto la porta, stizzito per i capricci di quei tre sciamannati che mettono in bastoni tra le ruote della rinascita che sta guidando a nome e per conto dell’Ue.
C’è rimasto male, bisogna capirlo: aveva superato una naturale diffidenza, si era abbandonato perfino a affettuosità carnali cingendo teneramente il segretario della Cgil al quale le autorità di ordine pubblico avevano generosamente offerto una occasione folgorante di recuperare una reputazione compromessa tramite il sacrificio di un po’ di suppellettili, aveva chiuso il rubinetto delle lacrime della sua ragioniera consulente speciale in materia previdenziale assumendosi l’onere di gestire in prima persona, caso raro, le formalità della macelleria pensionistica, certo che la sua autorità avrebbe liquidato in fretta le resistenze. E invece quei tre irresponsabili, inopinatamente, tirano fuori tute sgualcite, parole d’ordine desuete, proclami ammuffiti, minacciando, che scandalo, uno sciopero proprio in concomitanza con la festa in famiglia dei G20.
“Muro contro muro”, scrivono i giornaloni, dipingendo la scena, Lui a braccia conserte, pallido e “immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo”, direbbe il poeta, a significare la collera divina davanti a tanta empia ingratitudine dei beneficati che non riconoscono gli sforzi che ha compiuto arrivando perfino ad ammetterli regalmente al suo cospetto, per informarli magnanimamente e democraticamente delle sue decisioni.
È comprensibile la sua irritazione: come osano questi straccioni impuniti abusare del termine “riforma” il cui impiego è concesso solo per gli interventi strutturali da avviare nel rispetto delle condizioni implacabili per ottenere il prestito comunitario.
E per giunta accoppiarlo a “pensioni” secondo uno slogan arcaico che rimanda agli anni ’70 come il cocktail di scampi e le pennette alla vodka, quando invece un quadro completo di azioni e misure c’è già, ed è la legge Fornero quella che ha tradotto in “norme” le “raccomandazioni persuasive” della Banca centrale europea contenute della famosa lettera dell’agosto del 2011 firmata da lui e da Jean-Claude Trichet.
Solo degli irresponsabili potrebbero pretendere un atto così destabilizzante, quello di tornare indietro a prima dell’atto necessario compiuto dalla manina femminea e delicata della professoressa, a quando le pensioni costituivano la maggiore fonte di sbilanciamento per i conti pubblici, “proprio ora, pare abbia detto, che il sistema previdenziale è in equilibrio” grazie al suo tocco demiurgico.
Purtroppo l’indole criminale dei satrapi dell’impero si declina anche nelle forme dell’ipocrisia e nella rivendicazione di un’etica dell’equità. E difatti mandando in estasi commentatori e fan del progetto di rottura definitiva di vincoli e patti generazionali, lo sdegno di quello che più che banchiere di Dio si dimostra essere dio dei banchieri, si rivolge contro chi vorrebbe penalizzare la platea dei giovani e delle donne senza occupazione, appagare le aspirazioni parassitarie di gente che è ancora in condizione di lavorare e invece si aspetta di fare la bella vita a spese dello Stato, padre benevolo, che lui intende incarnare quando mette “i ragazzi al centro dell’azione di governo”.
Si dice che alla fine prima di alzare le auguste natiche dalla poltrona abbia alzato la voce deplorando i sussulti irrazionali, suscitati probabilmente dalle sollecitazione di piazza della marmaglia ribelle – Gkn, Whirpool comprese?- che hanno portato alla rottura di quel patto sacro: governo, sindacati Confindustria, volto alla pacificazione sociale e del quale Landini di era fatto orgoglioso interprete nel segno della figura ormai vicina alla canonizzazione, di Luciano Lama a 100 anni dalla nascita.
Capirete, non gli va giù che qualcuno metta in dubbio l’impegno del suo esecutivo per i giovani delineato nel suo new deal, preso atto, perfino lui, che la percentuale di popolazione tra i 15 e i 29 anni che non lavora e non è inserita in percorsi di istruzione o di formazione, è tra le più alte d’Europa, il 23,3%, con uno dei tassi di dispersione scolastica tra i più elevati con il 13,1% di giovani tra 18 e 24 anni che abbandona gli studi. E che secondo i dati parziali Istat di febbraio 2021, grazie alla gestione pandemica, circa 400 mila giovani hanno perso il lavoro in un anno, 159 mila tra i 15 e i 25 anni e 258 mila tra i 25 e i 34 anni, con un un aumento dei tassi di disoccupazione e di inattività che ha colpito duramente queste fasce d’età, più precarie e meno garantite di altre.
E allora bisogna dimostrare la buona volontà necessaria a ricevere la carità pelosa europea, formando un esercito di riserva pronto a diventare capitale umano da spostare dove il sistema ritiene opportuno e profittevole, promuovendo “competenze”, colmando il divario tra preparazione scolastica e lavoro favorendo l’implementazione di professionalità tecniche e specialistiche, ma soprattutto contenere le spese indirizzate al sostegno degli improduttivi immeritevoli.
Il fatto grave è che qualcuno ci crede. In questo disordine cognitivo che fa prendere per buone tutte le menzogne che escono dalla bocca delle autorità che fino a due anni fa erano considerate inattendibili, tanto da sfiduciarle, punirle con gli ingredienti dell’astensionismo, del populismo, dell’antipolitica, perfino i diretti interessati, perfino le vittime si interrogano sull’ingiustizia di far pagare le pensioni – che altro non sono che redditi e salari dilazionati, conservati in un sistema previdenziale opaco, arbitrario e discrezionale – sottraendoli alle risorse e agli investimenti sul futuro di giovani che nel migliore dei casi, si ritireranno dal lavoro attivo a 70 anni.
Perfino gli anziani che vanno alla mensa della Caritas che frugano nelle cassette dei mercati alle due del pomeriggio, vengono investiti dal senso di colpa per via della narrazione dominante che ha come protagonista un lavoratore benestante e garantito, che gode della protezione del sindacato, vive in una casa periferica ma sicura che ha un’auto nel vialetto, una tv con Netflix e Sky e il cui inferno è limitato all’alienazione in fabbrica o in ufficio, niente di paragonabile a quello del disoccupato, del rider sulla bicicletta, della donna che pedala sulla macchina da maglieria mentre gira il sugo, tanto da pensare di non meritare di godersi quella porzione di reddito sudato e accantonato, quel fondamento sano che è servito a aiutare figli e nipoti mobili e precari.
È che anche il trascorrere del tempo è segnato dalle disuguaglianze, ci sono i venerabili maestri, da candidare anche a 90 anni per dimostrare il rispetto che si deve ai capelli bianchi, anche quando sono artificiali o ritinti, ci sono le vegliarde autorità culturali e morali inviolabili e inamovibili, e poi ci sono gli altri, i vecchi, improduttivi, da conferire nella discarica della cronaca, che nemmeno la storia si accorge di loro.
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