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«Non si torna indietro». Così parlò Mario Draghi il despota, verso le 20 di un martedì qualunque. Il tema erano le pensioni, sulle quali invece si tornerà indietro eccome, esattamente alla Legge Fornero del 2011. Con tanti saluti a Salvini ed ai sindacati che, sembrerebbe quasi incidentalmente, stavano seduti davanti al suo trono. Seduti, o fors’anche inginocchiati come più gli si addice, ma di certo incapaci di toccar palla. Sta di fatto che all’ora di cena il despota si è annoiato di cotanto cincischiare ed ha lasciato quel tavolo cui tanto tenevano coloro che credevano di poter essere i suoi commensali.
Ma come, avrà pensato Landini, son passati solo 15 giorni dal tenero abbraccio davanti alla sede della Cgil e questo già ci mette alla porta? La verità è che Cgil-Cisl-Uil hanno ottenuto esattamente quel che si meritano. Nel 2018 trovarono la maniera di criticare “Quota 100” perché partorita dall’odiato governo gialloverde, mentre adesso si ritrovano in qualche modo a rimpiangerla senza però poterlo dire. Per il despota chiuderli in un angolo è stato un giochino da ragazzi.
Ma quel che colpisce, e che dovrebbe far riflettere pure i dubbiosi e gli increduli, non è tanto lo scontato risultato di un inesistente “confronto” con altrettanto inesistenti “controparti” sindacali, quanto piuttosto l’aperto atto d’imperio: qui comando io, e siccome non ho tempo da perdere mi alzo e me vado.
Visti i leccapiedi che si trovava davanti, davvero non c’era bisogno di una simile sceneggiata. Ma se il “vile affarista” di cossighiana memoria ha deciso quella mossa una ragione c’è. Chiarire a tutti, urbi et orbi, come funziona il nuovo regime tecno-autoritario alimentato a Covid. Un segnale non tanto per gli occasionali interlocutori, quanto per il parlamento e le esangui forze politiche che lo compongono. Che nessuno si azzardi a tirare la corda sulla Legge di bilancio! Su quella non si scherza, anche perché il despota ha preso chiari impegni davanti al Consiglio europeo della settimana scorsa.
Ora, qualcuno ci critica quando noi parliamo di “dittatura”. E va bene, discutiamone pure. Ma a due condizioni: che si guardino in faccia i dati di fatto; che si comprenda che la moderna dittatura non ha bisogno del manganello e dell’olio di ricino, sostituiti oggi dalla bastonatura mediatica e dal dominio sui corpi garantito dal monopolio della paura.
I dati di fatto sono chiari. Abbiamo un parlamento ridotto a stuoino del conducator. E la stessa cosa vale per un Consiglio dei ministri che qualcuno chiama a ragione “Gran Consiglio del draghismo”. La discussione pubblica si riduce ad un’invocazione a Lui, le principali cariche dello Stato spettano a Lui, e peccato che non possa stare contemporaneamente a Palazzo Chigi ed al Quirinale!
Aggiungiamo a questo la mostruosità del Green pass all’italiana, la discriminazione fatta legge, la sottrazione del diritto al lavoro ed al reddito per milioni di persone. Consideriamo poi uno “Stato d’emergenza” che dura da due anni, l’assoluto controllo dei media, la quotidiana diffamazione del movimento che si batte nelle piazze. Cos’altro ci vuole per poter parlare di dittatura?
Con il suo gesto plateale, Draghi ha messo ieri sera la ciliegina sulla torta. Il despota è lui, ed è lui il centro nevralgico del nuovo regime. Il movimento contro il Green pass ha cominciato a capirlo: il nemico fondamentale da fermare è Draghi. Il despota Mario Draghi.
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