L’Ocse sancisce che, in Italia, il salario (medio annuale) è diminuito del 3 percento in 30 anni.
E viene spontaneo chiedersi perché l’Italia continui a far parte
dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
che, un’indagine dopo l’altra, non fa che amareggiare la vita degli
italiani. Istruzione, cultura, salari: siamo sempre in fondo alla classifica, questa volta in modo clamoroso. Meglio non sapere né far sapere, perché sapere non serve a nulla.
Dal 1990 al 2020, il salario è cresciuto del 34 percento in Germania e del 31 percento in Francia. Perfino in Grecia e Spagna i salari sono saliti, del 30 e del 6 percento, rispettivamente. E la falce della pandemia ha decurtato i salari ovunque: i salari francesi e spagnoli sono scesi più o meno del 3 percento; quelli italiani quasi del 6 percento.
È stata la conseguenza di una rovinosa caduta del Sacro Pil nel nostro paese? Secondo la Banca Mondiale, il Prodotto Interno Lordo pro-capite è cresciuto in Italia del 52 percento nel periodo 1990-2020. La Germania ha fatto meglio, un bel più 105 percento; anche la Francia, più 77 percento. Ovunque, i salari sono cresciuti a un tasso assai minore della marcia trionfale del Pil. Dopo i gloriosi trent’anni del dopoguerra, i salari crescono assai meno del Pil pro-capite, comunque e sempre.
In Italia, però, l’evoluzione dei salari è addirittura di segno contrario a quella del Pil: lo stipendio diminuisce mentre aumenta il Pil. Ogni trentenne italiano è cresciuto assieme a una discreta crescita del Pil pro-capite, una volta e mezzo quello che aveva alla nascita, nel 1990. Ma non se ne è accorto. E la sua paga è minore di quella del padre.
Quando il segretario della Cgil, Luciano Lama, rinnegò la teoria del “salario variabile indipendente”, fino a quel momento era stata sostenuta con forza dal sindacato, ottenne una vera e propria ovazione da parte di tutti: politici, economisti, imprenditori, perfino la maggioranza dei lavoratori, dipendenti e non. Era il 1978 e l’evento fu santificato da una intervista di Eugenio Scalfari, pubblicata su La Repubblica del 24 gennaio. La parola d’ordine diventò: “mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza”.
Trent’anni di dati qualche dubbio lo insinuano: il salario è davvero una variabile dipendente? È probabile che lo sia. Dipende senz’altro dalla combinazione di moltissimi fattori, ma è una variabile pressoché indipendente dalla crescita economica misurata dal Pil, almeno in Italia. Luciano Lama aveva torto.
I successi del paese non si misurano sulla base del Pil, come disse Robert Kennedy poco prima di essere ammazzato. Il successo sociale di una nazione si basa sul grado di benessere della sua gente: la vita che fa, l’ambiente in cui vive, le relazioni sociali, il senso di appartenenza a una comunità, la fiducia nel futuro, la solidarietà e la buona compagnia. Tutti beni che contano più dell’accumulo di ricchezze materiali. Ma sono anche beni non proprio indipendenti dalla soddisfazione economica del proprio lavoro.
Liberisti e statalisti, ordo-liberalisti e collettivisti mettono la testa sotto la sabbia. Caduto il muro di Berlino, la società occidentale del benessere è mestamente tramontata. Il sol dell’avvenire si è inabissato nel mare di una disuguaglianza neofeudale. Il fenomeno è stato ovunque pagato in modo più o meno pesante dai salariati. Più o meno. Più PUBBLICITÀdi tutti, gli italiani.
Dal 1990 al 2020, il Pil pro-capite è cresciuto negli Stati Uniti più o meno come quello italiano, del 49 percento. Il reddito mediano del lavoro maschile è salito del 19 percento, quello femminile del 52 percento. Il salario minimo orario, che era 3 dollari e 80 centesimi nel 1990, nel 2020 era salito a 7,25 dollari. Nonostante uno stop che dura dal febbraio 2009, il salario minimo statunitense è cresciuto del 91 percento, a un tasso doppio rispetto al Pil pro-capite.
Rimane il paradosso della nazione bandiera del liberismo. I salariati minimi Usa pagano un pegno minore dei cugini europei, esclusi gli italiani: qui il salario minimo non esiste e il paragone non si pone. I lavoratori italiani hanno vissuto una vera e propria frana sociale. Si spiegano anche così l’emigrazione dei cervelli, la disaffezione per il lavoro, il disprezzo verso la cultura e l’istruzione e perfino la facilità con cui le più inverosimili credenze vengano prese sul serio. Il paradosso dei polli di Trilussa fotografa perfettamente il trentennale declino italiano:
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perch’è c’è un antro che ne magna due.
Anche quattro, otto, sedici. Alcuni salariati hanno pagato assai più di altri. Il sole splendeva per tutti, ma non tutti si sono abbronzati con la stessa voluttà. Ci sono Kshattrya e Bramini in continuo progresso salariale, dai top manager sempre più invadenti ai mega burocrati sempre più numerosi e prepotenti, e una moltitudine di paria in perenne discesa sociale, non soltanto braccianti e operai, ma anche artigiani, tecnici, insegnanti, impiegati, ricercatori, professionisti.
Nei casi in cui venga addirittura pagato, oggi un giovane giornalista è messo quasi peggio di chi affronta la carriera accademica. Come scrissi un paio di anni fa in Morte e resurrezione delle università, “molte professioni intellettuali sono malpagate perché considerati lavori ambiti. il concetto stesso di lavoro remunerato è in crisi, poiché si tende a pagare sempre meno chi fa un bel lavoro, partendo dal presupposto che se è così bello… Il 60% di chi ha lavorato a Expo-2015 di Milano lo ha fatto gratuitamente: il paradigma del free-work, nel suo duplice significato di lavoro gratuito e libero, sta emergendo come una caratteristica saliente del lavoro contemporaneo”.
Il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e c’è chi sale, recita un vecchio proverbio frutto della saggezza popolare. Bisogna vedere se queste scale condurranno la società italiana in paradiso o all’inferno. E l’ardua sentenza spetta solo ai posteri, anche se dubito che il tempo dica tutto, proprio tutto alla posterità – come sosteneva Euripide.
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