"Partecipo attivamente alla vita di questo Paese da 10 anni e a ogni incontro, manifestazione e dibattito a mancare sono i miei coetanei. Toccano anche a noi le riflessioni su cosa stiamo facendo per questa società". La lettera di una ragazza arrivata all'Espresso sposta il dibattito sulla condizione giovanile nel nostro Paese riaperto dal messaggio del trentenne che si è tolto la vita.
L'Espresso Veronica Andrea Sauchelli*Un giovane uomo si suicida perché non ha il lavoro che desidera e scoppia l’urto di accuse . Ovviamente la maggior parte sono commenti alla "governo ladro", "sistema bastardo" e "povera vittima". Non voglio tentare neanche per un secondo di commentare il gesto di chi se n’è andato perché non ne ho né il diritto né l’interesse.
Quello che mi preme dire, invece, è che io non mi sento follemente arrabbiata solo con un "sistema" generico, impersonale, intangibile; io mi sento arrabbiata col sistema reale, e mi dispiace sottolinearlo, ma del sistema reale fanno parte anche tutti quei miei coetanei che adesso puntano il dito verso un responsabile invisibile. Siamo tutti responsabili. Tutti: dal primo all’ultimo, e non solo chi arriva nei palazzoni con le auto blu.
Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando avevo 15 anni, ora ne ho venticinque e sono già stanca, amareggiata e stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione. Sì, lo sono anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non veniva nessuno perché "meglio i tornei di calcetto e pallavolo". Alle manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina di cui abbiamo sentito solo parlare. Poi sono cresciuta ed ho iniziato ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da fare aperitivo.
Al festival di Internazionale ho assistito ad un incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta - che ormai si sente troppo spesso - sortisce come unico effetto quello di assecondare il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo è il vero problema. Ognuno è a testa china sulla propria strada, in mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo e bicchieri di vino. È una grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.
Spesso ho fatto la pendolare coi miei colleghi di studio, ed è stato sempre un penoso lungo viaggio fatto scivolando sulla superficie delle cose. Uno solo l’argomento di conversazione, puntuale: l’esame e la mole di studio. Non riesce a preoccuparsi d’altro se non dei suoi problemucci quotidiani, questa nuova maggioranza; compresa la più istruita, "l’élite". Gente che anche quando si lamenta perché il libro scritto (e inflitto) dal professore non è nemmeno in italiano corretto e a studiarlo ci si sente presi per il sedere, sorride compiacente all’autore perché c’è un voto da portare a casa. Come si può pretendere da un insieme di persone incapace d’unirsi anche solo per ottenere un libro dignitoso da studiare, che sappia creare una forza sociale in grado di far valere i propri diritti?
Una persona molto cara a me (laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro l’ora (in nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare qualsiasi cosa avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. «Non andateci», ho detto ad alcuni amici «non dobbiamo sostenere il nostro sfruttamento», «mi dispiace, ma la birra lì è buona!», mi hanno risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento vaucheriano giovanile, «ma non sta sfruttando mica me!», già. Non oggi, non lì.
Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta a noi. Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere uno scontro tangibile con questa realtà. La società non si fa da sola, e in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa. Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. Chi altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia, questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche parte. Sempre che ci interessi.
*Veronica Andrea Sauchelli è una fotografa di 25 anni di Udine. Pubblichiamo con il suo consenso la sua lettera arrivata in redazione
Nessun commento:
Posta un commento