sabato 8 febbraio 2014

Studiare meno, lavorare gratis

http://www.ateneinrivolta.org


Da Communianet.org
Altro che lavorare meno lavorare tutt*, l’obbiettivo di riforme e leggi sull’università e sul lavoro è quello di creare una massa di lavoratori impoveriti, indebitati e soprattutto traumatizzati, disposti persino a lavorare gratis.
Mentre i dati sulla disoccupazione giovanile viaggiano verso il 50%, legislatori di qualsiasi colore si concentrano nel regolare tirocini e stage, le forme di lavoro gratuito o semi-gratuito propagandato da anni come un’esperienza formativa fondamentale all’interno di un’Europa che punta a diventare “l’economia della conoscenza più competitiva del mondo”.(1)
E’ dalla grande depressione del ’29 che la disoccupazione di massa rappresenta uno degli spauracchi principali dei governanti occidentali e sappiamo bene come il capitalismo abbia risposto con politiche anche assai diverse nei decenni, dall’obbiettivo piena occupazione negli anni 50 e 60, all’idea di occupabilità contemporanea.
Ma il caso italiano presenta una preoccupante costante:
“Le politiche attive del lavoro italiane hanno una carattestica dominante, che le differenzia dallo spettro articolato di politiche attive negli altri paesi europei sviluppati. A ben vedere, esse consistono in soli sussidi all’occupazione. Le forme del sostegno alle imprese che assumano particolari categorie di lavoratori sono state diverse: […] In ogni caso si tratta di una riduzione del costo del lavoro per l’impresa che assume, accompagnata, per l’apprendistato e per i contratti a termine, dall’assenza di costi di licenziamento”.(2)

• La prima regolamentazione del lavoro gratuito risale alla Legge 25/1955 che istituiva la figura dell’apprendista per i ragazzi sotto i venti anni: basso inquadramento salariale e sgravi contributivi in cambio dell’insegnamento di un mestiere…la musica da qui in poi non cambierà più.
• Dopo decenni di tentativi di inserire percorsi professionalizzanti nelle offerte formative universitarie, nel 1977, con una disoccupazone giovanile dilagante, arrivarono i “Provvedimenti per l’occupazione giovanile” con la Legge 285: sono questi i primi progetti regionali di formazione professionale, con le immancabili facilitazioni e detrazioni degli oneri sociali per le aziende che assumevano giovani. Con questo provvedimento faceva il suo esordio il contratto formazione/lavoro (durata massima 12 mesi).
• Con gli anni 80, anche su questo terreno, l’offensiva padronale si fece più feroce ed efficace: la legge 863/1984 autorizzò la chiamata nominativa per il 50% del personale assunto a tempo indeterminato, istituì la prima forma di contratto parziale ma soprattutto si regolarono i Cfl - Contratti formazione lavoro -, che prevedevano un’assunzione per 24 mesi in base a un fantomatico progetto formativo dell’azienda presentato alle relative commissioni regionali per l’impiego, ovviamente con condizioni contrattuali e contributive ben lontane dai normali rapporti lavorativi. E’ questo il primo provvedimento in materia di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro di una qualche efficacia: fino ai primi anni 90 si registrarono più di 2,5 mln di Cfl.
• Con la legge 451 del ’94 il governo Dini probabilmente assunse la categoria concettuale di “adolescenza lunga” visto che i Cfl divennero applicabili fino ai 32 anni! “
In Italia solo un governo di sinistra può fare le riforme di destra”.(3) Questa verità che Debenedetti allarga ad altri paesi, dagli Usa di Clinton, alla Gb di Blair o la Germania di Schroeder, trova conferma in ogni aspetto della legislazione italiana anni 90 di cui la legge 196/1997 “Norme in materia di occupazione”, meglio nota come Pacchetto Treu, è forse l’emblema principale.
• Non è questa la sede per parlare del complesso disegno riformatore dei rapporti sociali di quegli anni, ci basta ricordare come con il Pacchetto Treu l’apprendistato venne portato a 24 anni (26 per il sud-Italia), si proseguì la regolazione di lavoro a tempo paziale e Cfl (in vistoso calo nella seconda metà dei 90) e soprattutto si istituirono il lavoro interinale e le tante forme di contratti a termine (co.co.co. poi diventati co.co.pro.).
Con questo provvedimento, anche nel campo dell’inserimento lavorativo l’Italia dimostrava di applicare alla lettera tutti i punti del cosiddetto “Consenso di Washington”.(4)
• Nel frattempo i governi (i più solidi governi di centrosinistra della II Repubblica!) riuscirono a completare una riforma universitaria faticosamente iniziata nel 1989 e conclusasi con il Decreto Ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999, “Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei”, meglio nota come riforma Berlinguer del 3+2.
Dopo decenni di tentativi, finalmente la formazione universitaria diventava ufficialmente professionalizzante (con la triennale), i soggetti privati erano chiamati a contribuire alla definizione dell’offerta formativa (come auspicato dalle riforme Ruberti) e il lavoro gratuito di stage e tirocini diventava parte integrante della formazione universitaria.
L’idea di formazione lifelong, veniva ribadita ormai da anni. Dichiarazioni europee, protocolli d’intesa fra Confindustria e il Ministero dell’istruzione (5), numerosi convegni, ribadivano da anni la necessità di professionalizzare maggiormente gli studi, secondari e terziari.
Per capire cosa si intedesse per formazione continua, usiamo le parole dell’allora Rettore del Politecnico di Torino, Rodolfo Zich: “obbiettivo dei prossimi anni è la costituzione in Italia di un sistema formativo integrato, nel quale interagiscano sottosistemi che garantiscano agli utenti tutti gli strumenti per partecipare al mutamento socio-economico: sistema scolastico, sistema universitario, sistema della formazione aziendale e sistema della formazione professionale” nell’ottica di estendere il “ruolo della formazione lungo il corso della vita professionale”. (6)
Tutto ciò si tradusse da un lato nella dequalificazione dei saperi universitari (frutto dell’idea di professionalizzare i corsi) e dall’altro nell’introduzione dei tirocini degli stage formativi nei programmi, al pari degli altri esami. Nella follia razionalizzante dell’istruzione neoliberista è possibile misurare tutto con i crediti formativi: lo studio a casa, lo studio in aula e anche il cosiddetto “lavoro formativo” dei tirocini.
Nel frattempo gli atenei si sono riempiti di sponsorizzazioni, convenzioni ed eventi promozionali di aziende e consorzi per “Costruire un ponte tra Università e mondo del lavoro per offrire a studenti e laureati migliori possibilità di inserimento professionale e servizi di orientamento al lavoro.” (7)
Mai come in quegli anni riforme del lavoro e dell’università sono state talmente organiche, completandosi a vicenda all’interno del progetto di ristrutturazione dei rapporti di lavoro nell’epoca dell’accumulazione flessibile.
Per completare la ricostruzione dei provvedimenti in materia di lavoro giovanile:
• Con la l. 368/2001 l’Italia recepì la direttiva europea 1997/70/ce e l’applicabilità dei contratti a tempo divenne slegata da casistiche precise.
• La legge 30/2003, legge Biagi, è l’unico contributo del centrodestra italiano alla ristrutturazione dei rapporti lavorativi: si moltiplicarono le forme di contratti flessibili, venne istituito il contratto d’inserimento e si concepì l’apprendistato anche per i laureati (d’alta formazione).
• Completano questo quadro il testo unico sull’apprendistato del 2011 e la legge 92/2012, ovvero la cosidetta Riforma Fornero che, per quanto ci interessa analizzare in questa sede, obbligava la Conferenza Stato Regioni a dettare le linee guida in materia di tirocini; queste ultime sono state approvate il 24/1/2013 ma sulla loro applicazione a livello regionale regna il caos e la disomogeneità. Fra le intenzioni dichiarate c’è quella di prevenire gli abusi aziendali dell’utilizzo dei tirocini senza prevedere alcuna forma di monitoraggio. La novità più importante e controversa di queste linee guida riguarda l’indennità di partecipazione prevista per stagisti e tirocinanti (a carico delle regioni mentre ai datori di lavoro continuano ad essere garantiti tutte le facilitazioni già ricordate) che varia da regione a regione (da un minimo di 300 a un massimo di 600€ in Piemonte ed Abruzzo). (8)
Se dobbiamo credere alle parole di Marco Biagi, stiamo assistendo a un “passaggio dalla vecchia alla nuova economia, e cioè la transizione tra un sistema socio-economico di tipo industrialista ad uno nuovo fondato sulle conoscenze e sulle informazioni”.
Non si capisce perché l’obbiettivo diventi allora farci studiare di meno e farci lavorare di più e…gratis! 
Per capirci qualcosa proviamo allora a passare dai proclami di fine anni 90, alla cruda realtà dell’oggi attraverso le considerazioni del Consorzio Almalaurea: “Contrariamente a quanto avviene nella media dei paesi europei, nei prossimi anni in Italia la componente largamente maggioritaria dell’offerta di lavoro continuerà ad essere costituita da individui in possesso della scuola dell’obbligo o di un diploma secondario. Il problema quindi, semmai, è quello di formare adeguatamente, valorizzando l’apprendistato, i molti che si fermano tuttora alla scuola dell’obbligo, anche a causa della dispersione scolastica e della carenza di un’adeguata politica per il diritto allo studio, o che hanno intrapreso un percorso secondario professionalizzante”. (9)
Insomma nell’economia della conoscenza la priorità è imparare tempi e modalità del lavoro precario e scuole e università hanno un ruolo determinante!
In questo scenario, tirocini e stage hanno un ruolo fondamentale, come fa notare Roberto Ciccarelli “queste misure servono per creare un'economia della speranza e della fiducia dei giovani nel futuro. Un futuro che, evidentemente, non dipende da loro, ma dalla durata degli incentivi che lo Stato regala alle imprese". (10)
Sono numerosi gli elementi che rendono evidente il carattere farsesco di ogni discorso sull’economia della conoscenza:
- il calo delle immatricolazioni.
- L’assoluta inutilità degli stage nell’aumentare le possibilità d’assunzione: “I dati raccolti a livello nazionale da Unioncamere, attraverso la sezione dell'indagine annuale Excelsior dedicata ai tirocini formativi, dimostrano che purtroppo la percentuale di assunzione media dopo lo stage in Italia è sotto al 10%. Un altro dato emerso dal rapporto McKinsey Education to Employment 2013, chiarisce che da noi chi fa uno stage ha solamente il 6% di probabilità in più di trovare lavoro rispetto a chi non lo fa.” (11)
- Il fenomeno dell’overeducation: già evidente negli anni 90 (secondo l’Istat il 33% svolgeva attività per cui la laurea non rappresentava un requisito necessario), è stato recentemente portato alla ribalta con due articoli di quest’estate, di Corrado Zunino e Chiara Saraceno, che descrivono una realtà per cui ai giovani neolaureati viene consigliato (da informagiovani e agenzie interinali) di omettere la laurea nel proprio curriculum perché, come rileva Daniel Zanda della Federazione dei lavoratori atipici CISL Lombardia, "i datori di lavoro temono che l'iperqualificato o semplicemente il laureato che cerca il lavoro, sia demotivato da un lavoro non in linea con le sue speranze e quindi poco produttivo. C'è sempre il rischio che appena trova qualcosa di meglio se ne vada"; secondo Chiara Saraceno "con le loro aspirazioni e la loro cultura potrebbero creare disturbo in organizzazioni del lavoro e sistemi produttivi incapaci di innovare e immobili. La disoccupazione e sotto-occupazione dei laureati in Italia è dovuta alla scarsità della domanda in un sistema produttivo e amministrativo che è largamente controllato da persone con livelli di istruzione medio-bassa". (12)
L’economia della conoscenza e l’idea di formazione continua si mostrano per quello che sono veramente: una nuova fase dello sfruttamento capitalistico sui lavoratori, e uno strumento retorico per legittimare una dequalificazione dei saperi, per un mercato che necessita di un lavoro sempre più precario o totalmente gratuito per mantenere alti i profitti.
Per concludere.
Nonostante autorevoli penne dell’editoria italiana, come Beppe Severgnini, continuino a ripetere che “lavorare gratis si può”, sta tutto nelle mani dei giovani che lo devono fare seguendo la regola di P.I.P.P.O. (Per scelta, guardando all’Investimento reicproco, con Persone serie, avendo Patti chiari e solo Occasionalmente)(13), a noi lavorare gratis proprio non piace. Sarà che di tempo ne abbiamo poco, che di soldi ancora meno o forse soltanto che non siamo coglion* (per citare una fortunata campagna di queste ultime settimane), ma continuiamo a pensare che il frutto del lavoro di ciascuno di noi debba andare a ciascuno di noi!
Che a pagare le prestazioni lavorative di qualsiasi tipo non debbano essere i fondi pubblici, e quindi le tasse dei lavoratori dipendenti e quelle sui consumi (unica certezza fiscale delle casse statali), ma chi sul nostro lavoro ricava profitti enormi e sempre crescenti!
Che non esiste un’età per essere sfruttati e una in cui sfruttare (o ambire a farlo)!
Che non vogliamo “studiare per imparare un lavoro” ma per capire e vivere in quesa società con uno sguardo critico, proprio per non subire passivamente le politiche che ci vengono imposte.
Note
1. Dalle Conclusioni del Convegno Europeo di Lisbona, marzo 2000.
2. Bruno Anastasia, Adriano Paggiaro, Ugo Trivellato, Gli effetti sulle disuguaglianze generazionali delle riforme nella regolazione e nel welfare del lavoro, in Generazioni diseguali, Terzo rapporto biennale sulle disuguaglianeze economiche e sociali in Italia, a cura dell’Osservatorio sulle Disuguaglianze Sociali, il Mulino, Bologna 2011.
3. Franco Debenedetti da presentazione a M. Rojas, Perché essere ottimisti sul futuro del lavoro. Quattro argomenti contro i profeti di sventura, Carocci, Roma 1999, p. 21-22
4. Il “Washington Consensus” è un’affermazione attribuita all’economista britannico John Williamson per descrivere l’insieme delle direttive che i paesi dovevano applicare per accedere al sostegno economico del F.M.I. e della Banca Mondiale. Inizialmente rivolte ai paesi cosiddetti in “via di sviluppo” questo complesso di riforme trovò applicazione in tutte le economie, occidentali e non, a partire dagli anni 90. Cfr. J. E. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, Einaudi, Torino 2004
5. E’ del novembre 2011 l’ultimo accordo in otto punti fra Crui e Confindustria.
6. CRUI, Il valore dell'autonomia: l'autonomia didattica per una nuova Università, atti del convegno Roma, 1-2 aprile 1998, a cura di G. Mosconi ed E. Stefani.
7. Dalla Homepage del Sistema Orientamento Università Lavoro Jobsoul.it, ma si veda anche brainatwork.it, monster.it o i settori “placement” ed “orientamento” dei portali di un qualsiasi ateneo italiano.
8. Secondo Michele Tiraboschi “proprio le Linee-guida, nel prevedere espressamente un equo indennizzo di 300 euro per la “prestazione” resa dal tirocinante, paiono legittimare un abuso strutturale dei tirocini, degradati a mera “esperienza di lavoro”, depotenziando così non poco la loro originaria funzione di metodologia della alternanza e leva strategica della integrazione tra scuola e lavoro”, La Certificazione dei tirocini come soluzione alle incertezze e agli abusi in G. Bretagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi, L’attuazione a livello regionale delle linee guida 24/01/13: mappatura e primo bilancio, Adapt University Press, Modena 2013 p 49.
9. XV Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, sintesi di Andrea Cammelli, marzo 2013, p.9.
10. Roberto Ciccarelli, Non studio, non lavoro: è una questione di qualità (orgoglio NEET), da bin-Italia.org.
11. Eleonora Voltolina, Il numero non conta: ecco i tre veri indicatori per capire quali sono i "buoni stage", da larepubblicadeglistagisti.it, 24 gennaio 2014.
12. Corrado Zunino, Vuoi l’impiego? Nascondi la laurea; Chiara Saraceno, Perché la cultura disturba i manager, la Repubblica, 28 agosto 2013.
13. Beppe Severgnini, Lavorare gratis? Date retta a Pippo, Corriere della Sera, 23 maggio 2013.

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