Difesa dei valori tradizionali e impero eurasiatico, la Russia di Putin
si presenta al mondo attraverso i giochi olimpici della corruzione e
dello sfruttamento.
micromega di Guido Caldiron
«La
Russia teme solo se stessa, non certo l’Occidente o quei paesi che si
comportano in una maniera assolutamente spudorata e tentano di
screditare politicamente le nostre olimpiadi». Le piste da sci, il campo
da hockey su ghiaccio, la piscina monumentale le ha volute inaugurare
tutte personalmente. Ha perfino “domato” un leopardo nello zoo della
città. Vladimir Putin ha ribadito, con le parole come con le esibizioni
muscolari a favore di telecamera, che il suo paese non potrebbe essere
in mani più forti e sicure. Poco importa se i grandi d’Occidente, da
Obama a Merkel, da Hollande a Cameron – a differenza di Enrico Letta –
hanno scelto giustamente di dare forfait in polemica con le sue ripetute
sortite omofobe che lo hanno reso rapidamente un eroe dell’estrema
destra internazionale.
I XXII giochi olimpici invernali che il
leader del Cremlino inaugurerà venerdi 7 nella località di Sochi, sul
Mar Nero, sono prima di tutto una straordinaria vetrina per la sua
Russia, quella che ha plasmato a sua immagine e somiglianza nel corso
degli ultimi quindici anni di potere.
Lo sono a tal punto che,
già prima dell’arrivo della fiaccola olimpica che ne sancirà l’apertura,
queste olimpiadi hanno stabilito alcuni ben poco invidiabili primati.
Tutti indicativi del clima che si vive da tempo nel paese, affogato da
corruzione e scandali, proprio all’ombra dell’autoritarismo di Putin.
Un’immensa caserma sul Mar Nero
Il
primo record è quello dei costi, balzati dal preventivo di 12 miliardi
di dollari che era stato fissato per la loro realizzazione nel 2007 agli
attuali 51 miliardi: in assoluto la cifra più alta mai spesa
nell’intera storia olimpica. Somme colossali finite, come hanno
denunciato diverse ong russe e il blogger dell’opposizione Aleksej
Navalnyj, per altro anch’egli legato agli ambienti nazionalisti, in
buona parte nella casse degli oligarchi che sostengono lo stesso Putin. I
grandi gruppi economici alleati del Cremlino hanno fatto affari d’oro:
Gazprom ha costruito il complesso dello sci di fondo, Sberbank quello
del salto e Vladimir Potanin, il re del nickel, ha realizzato Rosa
Khutor, il resort da dove partono gli impianti di risalita. Addirittura,
ventuno contratti, per un totale di 7 miliardi di dollari, se li sono
aggiudicati da soli i fratelli Rotenberg, imprenditori che di Putin sono
stati amici d’infanzia a San Pietroburgo.
Poi ci sono le
denuncie, riportate da diversi rapporti di Human Rights Watch, per le
durissime condizioni di lavoro che sono state imposte alla manodopera,
in larga parte immigrata. Molti lavoratori stranieri sono stati spesso
costretti a dormire negli stessi cantieri, con temperature più che
rigide, per poi magari essere espulsi dalle autorità, conniventi con le
imprese appaltatrici, invece di essere pagati.
Non solo, per
costruire praticamente dal nulla la cittadella olimpica che sorge in
mezzo alle montagne, a una cinquantina di chilometri all’interno
rispetto alla vera e propria stazione balneare di Sochi, dove prima i
Romanov, quindi Stalin e infine Putin e molti dei nuovi ricchi di Mosca
hanno posseduto le loro lussuose dacie, si sono accumulati detriti di
ogni genere che, a detta degli ambientalisti locali, hanno già inquinato
il fiume Mzymta e minacciano pericolosamente alcuni villaggi accanto ai
quali sono sorte delle discariche improvvisate. Solo dopo i giochi
olimpici, ha fatto sapere il Cremlino, si penserà allo smaltimento.
Infine,
c’è il problema della sicurezza. Sochi si trova infatti a meno di 500
chilometri da Grozny, capitale di quella Cecenia a lungo epicentro di
una guerra combattuta sanguinosamente da Mosca e dai fondamentalisti
islamici del Caucaso e che ha già fatto più di centomila vittime.
Perciò, già prima di essere inaugurate, le olimpiadi di Putin hanno trasformato la zona in quella che il quotidiano britannico Guardian ha
definito come “un’immensa caserma a cielo aperto”. Oltre centomila gli
agenti delle forze dell’ordine e i militari mobilitati, mentre navi da
guerra incrociano al largo, lungo la costa del Mar Nero, e aerei da
caccia tengono rigorosamente chiuso lo spazio aereo locale. Nel
villaggio olimpico sono poi sottoposti ad uno stretto controllo sia il
traffico telefonico che le mail. Per prevenire attentati come quelli
perpetrati nell’ultimo mese dagli jihadisti nella vicina Volgograd, e
costati la vita a più di trenta persone, sostengono le autorità, per
controllare con questa scusa anche i molti giornalisti di tutto il mondo
che seguiranno l’evento, replicano le associazioni russe per la tutela
dei diritti dell’uomo.
Ma se questo è lo scenario che fa da sfondo
alla grande kermesse pubblicitaria costruita da Putin, resta da capire
quali sono le idee e i progetti che vi saranno illustrati.
Dio, patria e famiglia al Cremlino
«Il
mondo diventa sempre più contraddittorio e agitato. Oggi molti paesi
stanno rivedendo le loro norme morali ed etiche, cancellando le loro
tradizioni nazionali in nome dell’equivalenza delle diverse opinioni e
idee politiche, rischiando per questa via anche il riconoscimento
dell’equivalenza tra il bene ed il male. In queste condizioni si
rinforza la responsabilità storica della Russia. Noi difendiamo la
famiglia, sosteniamo la conservazione dei valori tradizionali e della
vita religiosa, sia sul piano fisico che spirituale: valori che da
millenni costituiscono la base morale e spirituale della civiltà di ogni
popolo. Non pretendiamo l’appellativo di superpotenza, se con questo si
intende un’ambizione di egemonia mondiale o regionale. Il nostro
progetto internazionale si basa sull’uguaglianza e gli interessi
economici. Continueremo a sostenere il processo euroasiatico senza
entrare in contrasto con altri progetti di integrazione, come ad esempio
quello europeo. Nessuno deve però illudersi di superare militarmente la
Russia, non sarà permesso, non l’accetteremo mai».
Così, alla
metà di dicembre, nel suo discorso annuale alla nazione – la versione
russa del discorso sullo stato dell’Unione della Casa Bianca –,
pronunciato di fronte alle Camere unite del Parlamento e a numerose
personalità del paese, a cominciare dal patriarca ortodosso Kirill,
Vladimir Putin aveva delineato l’orizzonte a cui guarda la nuova Russia.
Un paese, quello disegnato dalle parole dell’ex agente del Kgb –
primo ministro tra il 1999 e il 2000, presidente tra il 2000 e il 2008,
quindi di nuovo primo ministro tra il 2008 e il 2012 e, infine, eletto
ancora alla presidenza il 4 marzo 2012 –, che si vuole paladino della
conservazione, che esalta il ruolo pubblico della fede, come si è visto
nel caso delle Pussy Riot condannate per “blasfemia” per la loro
messa-punk, che ribadisce il primato della famiglia tradizionale,
sostenuto anche dalle recenti leggi contro “la propaganda omosessuale” o
dai terribili “consigli” dispensati da Putin perché «i gay lascino in
pace i bambini», e la “validità” del mantenimento delle discriminazioni
tra i sessi.
Una Russia che è tornata a celebrare sia lo Zar
Nicola II che il Piccolo padre Stalin e che non sopporta venga messo in
discussione alcun mito patriottico, di recente ne ha fatto le spese la
tv Dozhd che ha osato aprire una discussione sull’assedio di
Leningrado, novecento giorni di disperazione che hanno segnato una delle
pagine più terribili della Seconda guerra mondiale. E che si pensa come
“una comunità di simili” dove non c’è posto per “i diversi”, non a caso
a Mosca gli immigrati sono sottoposti alternativamente alle violenze
delle bande neonaziste o alle angherie delle forze dell’ordine: l’ultima
volta è successo nello scorso ottobre, quando nella periferia di
Birioulovo, nel sud della capitale, oltre un migliaio di immigrati sono
stati arrestati dopo essere stati oggetto di una sorta di pogrom,
conclusosi con decine di feriti gravi, scatenato dai gruppi
dell’ultradestra dopo che un giovane russo era stato colpito a morte da
un lavoratore azero.
Questo, mentre monta fin dentro il Cremlino
il ruolo dell’ideologia eurasiatica, cresciuta nelle fila della destra
russa fin dall’inizio del Novecento, che sembra riproporre l’idea
imperiale che fu prima degli Zar e poi dell’imperialismo sovietico. E
che, ancora in questi giorni, emerge nelle pressioni e nei ricatti
economici esercitati nei confronti dell’Ucraina o nei recenti accordi in
materia di energia nucleare stipulati con il governo ultraconservatore
ungherese di Viktor Orbán.
Dopo aver subito per anni l’offensiva
in nome dell’“esportazione della democrazia” lanciata da Washington
anche verso i paesi dell’ex blocco sovietico, Putin ha oggi inaugurato
un ticket che spera risulti vincente: i muscoli dell’Eurasia assortiti
con il soft power del conservatorismo.
Se della xenofobia
cresciuta nella società russa degli ultimi decenni, come dell’omofobia
più o meno manifesta dell’era Putin si è parlato a lungo, fino ad ora si
è dato però poco risalto alla svolta eurasiatica di Mosca, inaugurata
proprio con il ritorno di quest’ultimo al Cremlino due anni orsono.
Eppure, si tratta di un elemento tutt’altro che marginale, in grado di
illustrare in modo evidente la forte deriva, anche ideologica, verso
destra conosciuta dalla politica della nuova Russia.
Eurasia, Mosca in fuga dalla democrazia
Corrente
di pensiero sviluppatasi nell’emigrazione zarista degli anni Venti,
l’eurasiatismo sosteneva che solo volgendosi verso Oriente la Russia
avrebbe potuto evitare “il contagio” del progressismo europeo e
ritrovare la propria natura di potenza, autoritaria, e la propria
identità spirituale, ortodossa. Per resistere all’omologazione
democratica dell’Occidente, era così necessario che i russi guardassero
ad Est per formare un nuovo polo strategico e culturale “euro-asiatico”.
Pur
avendo attraversato marginalmente anche alcuni ambienti dell’élite
sovietica, le tesi eurasiatiche hanno fatto la loro piena ricomparsa a
Mosca solo dopo la caduta dell’Urss, soprattutto grazie all’opera di
divulgazione sia politica che culturale condotta da Aleksandr Dugin,
attualmente docente di Sociologia all’Università moscovita Lomonosov.
Già attivo nell’estrema destra negli anni Novanta, prima con il gruppo
Pamjat e quindi con il Partito Nazionalbolscevico, animatore di
importanti riviste nazionaliste come Den e Elementy,
studioso del pensatore fascista Julius Evola, il teorico del cosiddetto
“razzismo spirituale”, e vicino alla Nouvelle Droite di Alain de
Benoist, negli ultimi anni Dugin si è progressivamente avvicinato
all’establishment. Ha collaborato con il sito istituzionale Strana, con alcune note trasmissioni televisive e con la prestigiosa Literatournaja Gazeta e, come segnalava già nel 2011 il Financial Times,
è finito per gravitare nell’orbita dello stesso Putin. Al punto che il
movimento Evrazia, fondato dall’ideologo estremista negli ultimi anni,
ha sostenuto Putin anche in occasione delle ultime elezioni
presidenziali.
Non si tratta del resto di un convergenza
sorprendente, dato che nella visione neo-eurasiatica di Dugin, come
nella politica estera di Putin, lo sviluppo di un nuovo polo geopolitico
che faccia riferimento a Mosca può rappresentare un valido contraltare
all’egemonia americana e cinese. Mentre, sul piano interno, un ritrovato
status di potenza, che la Russia sembra ricercare fin dalla caduta
dell’Urss, servirebbe a rinsaldare la “comunità nazionale” oggi
indebolita dalle legittime spinte all’autonomia dei popoli ex sovietici.
Le
spinte autoritarie, nazionaliste e conservatrici incarnate da Vladimir
Putin, insieme alla nuova politica estera aggressiva inaugurata da Mosca
anche in materia economica, sembrano poter trovare così un loro quadro
ideologico compiuto.
E’ ancora lo stesso Aleksandr Dugin, dalle pagine web di Evrazia.info,
a sottolineare del resto questo percorso intrapreso dal Cremlino verso
l’applicazione della “filosofia politica eurasiatica”. «Non si tratta
solo di economia, Putin parla di Unione Eurasiatica come di qualcosa di
diverso. Come di un’autentica strategia politica, una strategia fondata
su tre principi basilari», sottolinea Dugin. Si tratta per prima cosa
della «costruzione di un mondo multipolare, di un equo sistema di
ripartizione della forza e delle zone d’influenza nel mondo». Secondo,
dell’«integrazione dello spazio post-sovietico. La Russia non può
costituire un polo pienamente autonomo e circoscritto, ma ha bisogno del
Kazakhstan, della Bielorussia, dell’Ucraina, della Moldavia, se
possibile anche dell’Armenia e dell’Azerbaijan». Infine, della
«riedificazione della Russia, non partendo da quel modello
liberal-democratico che negli anni ’90 venne copiato dall’Occidente, ma
percorrendo il proprio cammino di sviluppo assolutamente originale. Noi
non abbiamo un’unica società civile fondata sui principi
dell’individualismo, del liberalismo come ad esempio la società
americana o europea. Il sistema di valori della Russia è radicalmente
diverso. Perciò, non si tratta di inseguire la modernizzazione liberale,
ma di un compimento della potenza eurasiatica: integrale, forte,
mondiale».
Eppure qualcuno continua a pensare davvero che quelle di Sochi saranno solo delle semplici gare sportive.
(6 febbraio 2014)
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