collettivo militant
Anche i distinti sud
dello stadio Olimpico sono stati raggiunti dall’assurdo provvedimento
che identifica i cori di scherno verso i tifosi e la squadra avversaria
come forma di razzismo. Questa volta però sotto accusa non ci sono i
soliti “cento teppisti” appartenenti alle curve, ma un diverso settore
dello stadio, per di più applaudito dal resto delle serissime tribune
colme di profonda coscienza antirazzista. Tutto ciò non ha minimamente
turbato la campagna repressiva del giudice sportivo e dell’apparato
mediatico che lo manovra, volto ancora una volta a distinguere le mele
marce (i tifosi delle curve), dal resto della cittadinanza pacifica e
sportiva (il resto dello stadio). Quando
però il resto dello stadio interviene a sostegno di quei tifosi,
esprimendo con cori provocatori il proprio rifiuto al manicheismo
imposto dall’autorità mediatica, ecco andare in tilt il falso buonismo
anti-razzista, che ovviamente nulla ha a che fare con la logica della
lotta al razzismo e moltissimo invece con la teatralizzazione del
fenomeno calcistico mirante a eliminare il problema del tifo organizzato
a favore dello spettatore.
Come abbiamo già avuto modo di dire in passato (ad esempio qui e qua),
l’operazione giudiziaria e mediatica volta alla repressione del tifo
organizzato punta a eliminare questa forma di strutturazione dagli
stadi, sostituendola con la passività dello spettatore pagante. Questo
dev’essere soprattutto televisivo, ma non deve scomparire dalla cornice
dello stadio, visto che la spettacolarizzazione del fenomeno calcistico
ha bisogno appunto di una cornice di pubblico adeguata a descrivere ogni
partita come evento sociale ed economico. Non scendiamo nei dettagli di
un’analisi già fatta, ma concentriamoci sull’ultimo strumento in voga
per reprimere tale forma di tifo: la battaglia contro il razzismo.
Qualsiasi persona dotata di buon senso, e neanche troppa intelligenza,
capirebbe che i cori cantati contro la tifoseria avversaria servono per
offendere, schernire, dileggiare (trovate voi il resto dei sinonimi) gli
avversari di turno. Non costituiscono alcuna forma di cripto-razzismo
(a differenza, ad esempio, dei bu razzisti verso giocatori di colore). E
questo sia detto a prescindere da due fatti, anch’essi evidenti: il
primo, che in determinate curve italiane il fenomeno razzista sia stato
componente integrante della degenerazione fascista che hanno vissuto
pezzi del tifo organizzato; il secondo, che non stiamo esaltando
acriticamente il coro in sé o chi lo canta, ma dicendo che in questo
caso non è il presunto razzismo il problema, ma la repressione del tifo
organizzato. Dovremmo concentrarci insomma su tutt’altro. Il normale (e
sacrosanto) insulto alla tifoseria avversaria è parte sostanziale del
fenomeno calcistico, e usuale anche in altri sport o rievocazioni dello
scontro campanilistico. Insultare l’avversario è uno degli strumenti con
cui il tifoso di una squadra cerca di partecipare alla sconfitta del
nemico di turno. Punto. Qualsiasi sovrastruttura mentale che interviene a
spiegare tale fenomeno attraverso le lenti della sociologia o della
politica è creata ad arte dagli apparati che gestiscono il consenso.
Trattasi, per qualcuno, di interpretazioni interessate volte a sviare il
fulcro del discorso; per altri, di semplici pippe mentali (si, proprio
loro).
I cori cantati in Roma
Sampdoria mettono però in luce tutta una serie di contraddizioni
ulteriori che è bene rilevare per cogliere il senso della guerra contro i
tifosi portata avanti da società di calcio, televisioni e mondo della
politica. In primo luogo, sono stati cori di massa, cantati da gran
parte dello stadio, e a curve chiuse. A meno di non considerare tutto il
resto dello stadio pervaso di ideologie razziste, solo questo fatto
dovrebbe smontare l’artificio retorico volto a distinguere una massa
buona dalle poche mele marce. Più in generale, le battaglie prima
condotte solo dai tifosi organizzati stanno diventando sempre più
patrimonio di chiunque frequenti lo stadio. La repressione generalizzata
infatti sta facendo cadere anche l’ultimo steccato esistente tra tifoso
“normale” e ultras, visto che le norme repressive puntano ad attaccare
il “tifoso” in quanto tale e non solo l’ultras. Quelle che una volta
erano battaglie di nicchia stanno rapidamente trasformandosi in
battaglie generalizzate all’interno del contesto dello stadio. La
criminalizzazione del tifo organizzato non solo non produce la
ghettizzazione di questo, ma all’inverso sta portando tutti i tifosi
sulla strada della risposta alla repressione.
Secondo,
per tale legislazione, cantare un coro contro la tifoseria avversaria
sarebbe molto più grave che, ad esempio, bersagliare di fumogeni e torce
gli spettatori di altri settori. Infatti, queste fattispecie
(costantemente presenti in ogni campo di calcio) non prevedono la
chiusura né totale né parziale dello stadio, cosa che avviene solo per
il presunto coro discriminatorio.
In terzo luogo, la
parola definitiva sulla questione dovrebbero averla detta i napoletani
stessi, solidarizzando con le tifoserie colpite ed esponendo il famoso
striscione recitante “Napoli colera”. Anche loro – soprattutto loro –
hanno capito la posta in palio e l’obiettivo concreto di questa
campagna. Che non è ripulire gli stadi dal razzismo, ma ripulirli dai
tifosi organizzati. E così come non considereremo mai una forma di
razzismo il continuo “romano bastardo” cantato in ogni stadio d’Italia,
da nord a sud, così non lo è quel coro sul Vesuvio, che ogni tifoso allo
stadio ha cantato nella propria vita.
Infine, il giudice
sportivo vorrebbe imporre norme contro presunte discriminazioni
territoriali quando è egli stesso parte di quel sistema discriminatorio:
infatti proprio tale giudice ha stabilito che i biglietti per l’accesso
allo stadio sono acquistabili unicamente da cittadini residenti nella
regione di appartenenza della squadra di calcio. Un romanista che vive
in Veneto non può acquistare biglietti per vedere la Roma. Questo,
semmai, alimenta fenomeni definiti di discriminazione territoriale, non
certo il coro contro la tifoseria opposta.
Questo fatto aiuta
altresì a distinguere le posizioni in campo. Come in tutte quelle
vicende in cui è impossibile stare opportunisticamente nel mezzo, o si
sta dalla parte dei tifosi o da quella delle società e delle
televisioni. Non a caso quasi tutte le radio romane, indotto
fondamentale in città per spostare umori, soldi e anche voti, stanno
dalla parte delle società, contro l’assurda legislazione ma allo stesso tempo contro
l’ostinazione dei tifosi a rimarcare il punto. Proprio quelle radio che
a parole dicono di “difendere” i tifosi, quando i nodi vengono al
pettine si scoprono i principali avamposti da cui il nemico televisivo
colpisce il tifo organizzato. Così come non è un caso che quasi tutti i
giornalisti sportivi in questi giorni abbiano attaccato i tifosi e
appoggiato la battaglia contro il razzismo (con significative eccezioni,
ad esempio Daniele Lo Monaco).
Perché questa battaglia, che nulla riguarda il calcio, sottintende un
modello di società più generale, dove non sono ovviamente compatibili
isole di contropotere come possono esserlo le curve di determinati
stadi. Noi, che siamo un collettivo antirazzista e antifascista, stiamo
dalla parte di quei cori e di quei tifosi. Evitando di guardare il dito
di chi punta alla retorica razzista senza guardare la luna del modello
di società (e di sport) che le società di calcio e il potere
politico-mediatico hanno in mente. Oggi chi sta nel mezzo è un nemico, e
non è un caso che chi sia un nemico in questa vicenda lo sia anche a
livello politico. Perché in realtà questa vicenda parla di noi, del
movimento di classe e della repressione che costantemente vive sulla
propria pelle. Nelle piazze come nelle curve.
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