La parola “eutanasia” viene spesso utilizzata come un’arma per negare il diritto di ciascuno di non essere torturato con sofferenze inenarrabili per il resto dei suoi giorni a causa di una malattia che lo abbia colpito. Il Foglio del sanfedista Giuliano Ferrara utilizzava ieri addirittura l’espressione “messi a morte” una quantità terroristica di volte, in riferimento a cittadini di cui deve però scrivere, quando esamina i casi concreti, “ha chiesto e ottenuto che”. Cittadini, dunque, che avevano semplicemente ottenuto di veder rispettata la loro libertà di non dover subire ulteriormente le mostruose sofferenze a cui si era ridotta la loro “vita”.
Perfino i condannati a morte per i delitti più efferati non possono più essere torturati prima dell’esecuzione, come avveniva invece tra grandi hurrà di popolo ancora tre secoli fa. Perché dovrebbe essere consentito nei confronti di chi è condannato a morte dal caso, dalla sciagura di una malattia? E chi altro può decidere se il dolore che vive sia insopportabile, sia tortura che ha reso la sua “vita” ormai l’opposto della vita, se non chi la prova nella carne e nel cervello?
Chiedere che sia rispettata la propria volontà di non essere ulteriormente torturato, ed essere “messi a morte”, sono cose abissalmente distanti e anzi opposte, come capisce chiunque utilizzi il linguaggio per comunicare onestamente, anziché per prevaricare e schiacciare la volontà altrui al modo del despota totalitario immortalato da Orwell. Il terrorismo di chi usa “eutanasia” o locuzioni ancora più agghiaccianti (arrivando all’abiezione morale di richiamare le pratiche naziste, che di eu-thanatos, cioè “buona morte”, non avevano proprio nulla, visto che mai venivano invocate dalle vittime), per descrivere la richiesta di non essere più torturati, raggiunge il suo diapason quando si tratti di un bambino. La maggioranza delle persone che abbia ascoltato ieri i telegiornali o abbia scorso i titoli di alcuni “grandi” giornali “indipendenti” avrà pensato che il Parlamento belga sia in preda al disprezzo per i diritti e la vita dei minori. Eppure è vero esattamente il contrario.
La legge belga stabilisce che possa chiedere una morte liberatrice il bambino che sia costretto a “una sofferenza fisica costante e non sopportabile, che non può essere alleviata e che viene prodotta da una malattia grave e incurabile”. Il testo di legge prevede inoltre la duplice cautela di uno psicologo che stabilisca se il minore abbia preso in libertà la decisione, per la quale comunque è necessaria l’autorizzazione dei genitori. Dov’è dunque lo scandalo? Che cosa c’è in questa legge che non sia di alta civiltà, di umana pietas, di rispetto per chi soffre in forme che nessuno di noi riesce neppure a immaginare?
Il “protocollo di Groningen”, con cui la possibilità dell’eutanasia pediatrica fu introdotto in Olanda, nacque perché i medici che della sofferenza di bambini senza speranza si prendevano cura davvero, portarono a conoscenza dell’opinione pubblica quali abissi di strazio potesse nascondersi dietro parole come “sofferenza”, che riusciamo a pronunciare tranquillamente (anche quando accompagnate da aggettivi come “inenarrabile”). L’Epidermolysis bullosa, ad esempio. Uno stato incurabile che progressivamente distrugge la pelle e auto-amputa le estremità. La pelle letteralmente viene via ogni volta che il bambino viene sfiorato, lasciando dolorosissime lacerazioni nel tessuto epiteliale. Gli strati più superficiali delle mucose della bocca e dell’esofago si staccano ogni volta che viene nutrito, funzione espletata per intubazione. A giorni alterni si devono cambiare le bende, staccarle dagli strati meno superficiali della pelle, strappare i tessuti di pelle appena riformatisi... Dopo molti anni sopravviene un letale cancro alla pelle.
Oggi un bambino (belga) può dire basta. Qualcuno ritiene che debba invece essere condannato a “vivere” queste o analoghe torture fino alla maggiore età? Davvero fino a questo punto può accecare l’ideologia o la religione?
Nessun commento:
Posta un commento