Adesso cominciamo ad avere cognizione che Trieste, assieme a Danzica e a Costanza in Romania, saranno i porti di appoggio della Nato nel caso di una guerra generalizzata o almeno questo si evince dai think tank anglosassoni che cominciano ad affastellare prospettive sul conflitto generalizzato. Certo si tratta di idee balzane perché questi porti sarebbero ovviamente sotto tiro e hanno un’utilità solo finché continua la guerra per procura che impedisce ai russi di colpire direttamente. Ma lasciamo perdere questo brancolare nella nebbia dell’Alleanza atlantica e dei suoi strateghi di carta. Qui voglio evidenziare come la splendida Trieste sia stata da oltre un secolo una vittima dell’arroganza americana, una vera e propria città martire delle mire Usa.

Com’è noto o come forse dovrebbe esserlo, l’Italia fu convinta a cambiare di campo e a entrare a fianco dell’Intesa – con una giravolta che ci è costata ogni credibilità internazionale – con la promessa di acquisire l’Istria e parte della Dalmazia che a quel tempo erano territorio dell’Austria Ungheria. Questo patto fu però stipulato due anni prima dell’entrata in guerra degli Usa. Quando gli yankee arrivarono con straordinario opportunismo nel momento in cui gli eserciti europei erano esausti e dissanguati, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, cambiò le carte in tavola e spinse per la creazione di una grande nazione jugoslava pensando di poterla utilizzare per contrastare la Russia dove nel frattempo c’era stata la rivoluzione di ottobre. Così ritenne di ingraziarsi i favori della futura nazione concedendo territori che in precedenza erano stati promessi al Regno d’Italia e i cui ceti dirigenti erano essenzialmente di cultura italiana, visto che per molti secoli erano stati domino di Venezia. La famosa impresa di Fiume di D’Annunzio si inserì proprio in tale contesto.

A fare le spese di tutto ciò fu proprio Trieste che appena qualche anno prima era l’unico grande porto dell’impero asburgico e che si ritrovò non solo con gli imperi centrali ridotti a frammenti o economicamente distrutti, ma anche con uno scarso retroterra che di fatto la isolava e vicino a un nuovo Paese la cui arretratezza non le consentiva di mantenere i livelli di interscambio di prima. La stessa cosa si ripropose dopo la seconda guerra mondiale quando la città si vide ulteriormente confinata in un angolino d’Italia a pochi chilometri dai confini con la Jugoslavia, che sarà anche stata la grande eretica del socialismo reale in Europa ma che era comunque dietro la cortina di ferro e dunque poco gradita come partner commerciale. Il boom economico italiano e poi quello tedesco la salvarono da un declino rapido e inevitabile, però quando la Jugoslavia, dopo la caduta del muro, si apprestava a diventare un’importante Paese che avrebbe avuto in Trieste il suo porto di elezione, gli Usa cambiarono idea: una Jugoslavia unita ed economicamente forte era diventata un ostacolo verso l’accerchiamento della Russia e quindi dopo aver imposto la sua unione mezzo secolo prima operarono per la sua distruzione e balcanizzazione. Questo ovviamente fu ancora una volta causa di un mancato sviluppo del porto triestino pur in un contesto di forte aumento dei traffici internazionali e nonostante il fatto che sia lo scalo marittimo con il più profondo pescaggio fra quelli europei. Cosa quest’ ultima che aveva suscitato l’ interesse della Cina che voleva farne uno scalo di riferimento, ma anche in questo caso Washington è intervenuta per evitare che accadesse. Ele campagne di stampa in tal senso sono state qualcosa di meno pulito della spazzatura.

Adesso come la ciliegina sulla torta sempre gli americani vogliono fare di Trieste un bersaglio perfetto per i missili russi che essi peraltro non possono fermare. Da notare che i porti scelti sono in Polonia, Italia e Romania, mica quelli olandesi, belgi e tedeschi che si sono mangiati gran parte del traffico da e verso l’Europa. Si tratta di sfruttare la follia antirussa della Polonia, la natura di cottimista della Nato della Romania e la totale subalternità dei governi italiani che tacciono sempre e comunque col padrone, di qualunque segno siano.