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Uno dei più noti e intelligenti analisti internazionali, Pepe Escobar, ha paragonato l’immagine di Trump che si rialza e alza il pugno dopo gli spari, a quella dei marines che sollevano la bandiera nell’isola Iwo Jima e che poi è stata riprodotta e immortalata in una statua che campeggia a poca distanza dal cimitero miliare di Arlington. Non so se si possa paragonare davvero, ma è significativo che ormai l’America non possa sfuggire ai propri fantasmi. La conquista di questa isola a 700 miglia marine da Tokio fu tutt’altro che eroica e anzi fu uno dei crimini di guerra degli Usa che – non c’è bisogno di dirlo – viene accuratamente nascosto nonostante che i fatti siano accertati e tacitamente ammessi.
La piccola isola vulcanica quasi disabitata e utilizzata solo per l’approvvigionamento di zolfo, venne fortificata nel 1944 quando il Giappone temeva che potesse essere una delle basi da cui gli americani avrebbero potuto colpire il territorio metropolitano del Paese. Venne inviata in momenti successivi una guarnigione che arrivò a comprendere circa 22 000 uomini i quali scavarono un’ intricata serie di gallerie e fortificazioni in maniera da poter resistere ai cannoneggiamenti navali.
E a ragione perché i 75 mila marines pronti a sbarcare erano accompagnati da una flotta di oltre 600 navi tra cui numerosissime corazzate e portaerei che garantivano alla forza di attacco la disponibilità di oltre mille caccia e di centinaia di grossi calibri navali. A questo gigantesco apparato bellico i giapponesi opponevano 46 pezzi d’artiglieria da 75 mm, circa 180 mortai di vario calibro, 30 cannoni navali da 80 mm, 94 cannoni antiaerei da 75 mm, 200 pezzi antiaerei da 20 e da 25 mm e 69 cannoni controcarro da 37 e 47 mm. C’erano inoltre alcune armi sperimentali a razzo.Dal divario delle forze si intuisce che l’impresa non si presentava di certo come eroica per la bandiera a stelle e strisce. Per farla breve nonostante i cannoneggiamenti continui, i giapponesi riuscirono a resistere con determinazione affondando e danneggiando molte navi statunitensi. Poi quando i marines presero terra, le gallerie scavate in precedenza fornirono ai giapponesi la possibilità di compiere rapidi attacchi per poi scomparire nel sottosuolo dove i soldati americani avevano paura ad inoltrarsi. I marines che di certo non si aspettavano questa resistenza, persero circa 6000 uomini e per vendetta, in mancanza del napalm che sarebbe stato usato in Vietnam, guerra dove certe tattiche si riproposero, cominciarono a far fuori anche i giapponesi che si arrendevano. Così vennero uccisi dai 15 ai 16 mila giapponesi nonostante la resa mentre solo 1000 vennero fatti prigionieri. E furono gli unici sopravvissuti. Per nascondere questa realtà fu incentivato il mito dei giapponesi irriducibili che attaccavano all’arma bianca. Un po’ come nella successiva battaglia di Okinawa si disse che i 150 mila civili giapponesi uccisi dai cannoni e dai bombardamenti americani si erano suicidati in massa. La ciliegina sulla torta è che sulla base di queste due menzogne ne venne creata una terza, ovvero l’impiego “umanitario” delle bombe atomiche sul Giappone che in realtà era già disposto alla resa. Ma la distruzione di Hiroshima e Nagasaki non serviva a vincere la guerra, bensì a mandare un avvertimento all’Unione Sovietica.
Questo è l’eroismo raffigurato nella statua dei marines che alzano la bandiera, una sinistra menzogna che come molte altre “conquiste” americane è stata riscattata quando non addirittura creata da Hollywood. Quindi niente di peggio che il Trump di Iwo Jima per cominciare davvero a cambiare qualcosa.
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