lunedì 8 luglio 2024

Il “fascismo” contemporaneo non veste l’orbace

 Una compagnia di spettri si aggira per l’Europa odierna, ma a capitanarla non è di certo una larva in fez e camicia nera, anche se qualche politicante e schiere di imbonitori mediatici sostengono allarmati (rectius: allarmisti) il contrario.

630 360 1718293752 1970.jpeg

Norberto Fragiacomo linterferenza.info

Vediamo di essere più precisi: un nuovo autoritarismo si sta per davvero affermando, e anzi a livello continentale è già dominante, ma non si identifica con i gruppuscoli di giovinastri nostalgici che marciano nerovestiti nelle vie di un borgo laziale e nemmeno con i quadri intermedi di un partito che è la versione 2.0 del MSI di Almirante. Che i meno accorti, cresciuti con quei miti, si lascino ogni tanto sfuggire un saluto romano o un Sieg Heil! è abbastanza scontato, così come non deve sorprendere che questo o quel “federale” di lungo corso sia restio a pronunciare un’abiura che striderebbe peraltro con lo spirito dei tempi. Ma come? – potrebbe ribattere il caporione di turno all’intervistatore beneducato e democratico – non siamo tutti d’accordo nel sostenere l’eroica battaglia del reggimento Azov, che la sua “fede” la esibisce con fierezza, e nel condannare il mostruoso comunismo sovietico che ha prodotto l’aggressore Putin? Non concordiamo sul fatto che il nemico sono i barbari orientali, che la NATO è un presidio di libertà e che Israele va difeso, costi quel che costi? Non abbiamo gioito insieme per la liberazione di quei quattro ostaggi, scrollando le spalle di fronte alle duecento vittime collaterali palestinesi? Noi stiamo dalla stessa parte, amico democratico: è questo ciò che conta, tutto il resto è folklore.

Ecco: se il post-missino medio muovesse oggidì una siffatta obiezione a chi, da alfiere del mainstream neoliberale, ostenta raccapriccio per certi riti e atteggiamenti, dovremmo a malincuore riconoscere che il ragionamento non fa una piega: oggetto di quotidiane reprimende retoriche, che sono a loro volta folklore, il fascismo lato sensu inteso risulta ormai nei fatti sdoganato da un sistema che tutt’al più gli chiede un minimo di compostezza e buone maniere in società.

Persino in Italia, che della versione originale è stata la culla, la conventio ad excludendum non vale più: prima ancora dei successi elettorali di FdI attesta un tanto il formidabile assist offerto tre anni fa dall’establishment a un’incredula Giorgia Meloni, che assieme all’esclusiva dell’opposizione ricevette a gratis l’opportunità di presentarsi, una volta caduto Draghi, come l’unica alternativa ai partiti della grande ammucchiata. Penso non si sia trattato di una colposa sottovalutazione, quanto piuttosto di una scelta ponderata: chi meglio dei “neri” sa coniugare classismo e populismo, promesse magniloquenti e pessime pratiche, proclami sovranisti e intelligenza con lo straniero? Cinismo e pugno duro sono doti apprezzate dai suggeritori d’oltreconfine (e pure dalle lobby nostrane) che, in caso di deviazioni, possono estrarre dalla manica l’asso di un passato biasimevole e antidemocratico: i postfascisti sono perennemente sotto esame, e inequivocabili segnali in codice – da ultimo l’umiliazione inflitta alla Meloni a Bruxelles, ma anche scandali e rivelazioni giornalistiche fanno gioco – servono a rammentar loro che la libertà d’azione è molto, ma molto condizionata e che, una volta montata, la ruota di scorta obbedisce al volante.

Ha il sapore dell’ammonimento anche la levata di scudi politico-mediatica contro il RN di Marine Le Pen, vincitore del primo turno delle elezioni francesi: la prospettiva di un Paese più autorevole e meno sottomesso dell’Italia condannato medio tempore all’ingovernabilità sembra non dispiacere all’élite atlantica, comunque garantita dalla presidenza dello screditato Macron – la Le Pen, d’altra parte, ha fiutato il vento e già provveduto ad ammorbidire certe posizioni “eretiche” sull’Unione Europea, l’appartenenza alla NATO e la guerra in Ucraina. Dovesse dopotutto trionfare assisteremo – c’è da scommetterci – a un progressivo processo di “melonizzazione”, anche se il maggiore prestigio internazionale goduto dalla République frutterà una più ampia autonomia decisionale e il servo encomio non sarà preteso. Resta il caso di AfD in Germania, ostracizzata non perché “nazista” (altrimenti l’Ucraina sarebbe già stata abbandonata a se stessa), ma perché contraria, almeno a parole, alle politiche aggressive NATO/UE e favorevole a riappacificarsi con la Russia. La Repubblica Federale è tra i Paesi occidentali quello maggiormente penalizzato dalla guerra in corso: al tracollo economico si sono aggiunte ripetute mortificazioni, la più grave delle quali è stata il sabotaggio da parte degli “alleati”-padroni del gasdotto North Stream. La classe dirigente tedesca ha finora ingoiato squittendo tutti i rospi, palesando la debolezza strutturale di uno Stato che, al pari dell’Italia, è a sovranità limitata. Ipotizziamo che Alternative für Deutschland trionfi alle prossime elezioni e cerchi effettivamente di attuare i suoi propositi: allo stato attuale mancano del tutto i presupposti per un revanscismo stile Anni Trenta, visto che la Germania del XXI secolo è multietnica, occidentalizzata nel profondo e ospita un gran numero di basi militari americane. Scholz è un nanerottolo politico, ma anche l’osannata Merkel dovette piegarsi ai diktat giunti da oltreoceano (si vedano le tardive ammissioni sulla natura truffaldina degli Accordi di Minsk e, ancor prima, la mancata reazione alle manovre della CIA a Kiev). L’unico “destro” controcorrente è di fatto l’ungherese Viktor Orban, forse per calcolo, forse perché la nazione che governa è marginale e lui può dunque permettersi di curarne gli interessi.

La relativa incapacità di incidere dell’estrema destra, che la condanna a un ruolo gregario, non esclude tuttavia il rischio di una svolta autoritaria, peraltro già in atto. Fascismo e nazismo sono specifici fenomeni consegnati alla Storia che però, al netto di truci “aspirazioni” legate a un particolare contesto e a coreografie difficilmente riproponibili su vasta scala, si fondano su categorie che potremmo definire atemporali. Il regime mussoliniano e i suoi imitatori furono essenzialmente autoritarismi classisti, votati cioè a salvaguardare il predominio dei ceti padronali in un’ottica di mutuo supporto; espansionisti e bellicosi (per il precursore Marinetti “la guerra” era la “sola igiene del mondo”); smaccatamente razzisti; tesi al controllo assoluto dell’informazione e alla repressione di ogni forma di dissenso. I campi di sterminio nazisti sono una conseguenza abnorme di questo atteggiamento mentale, le aggressioni militari, invece, qualcosa di assolutamente prevedibile tenuto conto delle premesse ideologiche.

Ebbene, l’Occidente guidato dagli USA sembra aver fatto proprio quel modello: tutela gli interessi dei potentati economico-finanziari a detrimento dei cittadini declassati a sudditi (l’esempio greco è illuminante!); punta a controllare ogni quadrante del mondo ricorrendo a politiche predatorie, all’intimidazione e spesso e volentieri a devastanti attacchi militari che destabilizzano intere regioni e mietono un’infinità di vittime; dopo aver individuato i nemici da sopprimere conia per loro e i rispettivi popoli epiteti infamanti e criptorazzisti (anche se la discriminante non è più la “razza”, ma l’adesione ai “principi democratici”: cambia poco, siamo pur sempre “il giardino circondato dalla giungla”, per dirla con l’atlantosocialista Borrell); impone alle masse a colpi di slogan una visione del mondo che, seppur posticcia, non ammette critiche né distinguo. Certo, a singoli predicatori senza seguito è ancora permesso proferire “eresie”, ma solo perché le loro voci si perdono nella torre di babele social – e l’acuirsi dell’emergenza, sanitaria o bellica che sia, restringe comunque anche questi fittizi spazi di “libertà”.

Il “fascismo neoliberale” preferisce l’elegante doppiopetto a orbace e camicia bruna; quanto alle aule parlamentari (si pensi a quella di Strasburgo, dove si inneggia alla superiorità morale dell’Occidente senza decidere in concreto alcunché), sono oramai ridotte a un bivacco di affaristi, procuratori e perdigiorno – è per questo che larghi strati della popolazione rinunziano stabilmente al diritto di voto.

D’altro canto, la Storia recente ci insegna che l’ostinata avversione ai fascismi vantata dalle potenze sedicenti democratiche appartiene alla mitologia: Benito Mussolini fu stimato e corteggiato a lungo dall’establishment angloamericano, che pure ben conosceva i misfatti del suo regime (omicidio Matteotti in primis), e nel dopoguerra la NATO non ebbe remore ad accogliere fra i suoi membri Portogallo e Spagna, cioè altrettante dittature reazionarie e fascistoidi. Gli americani, dal canto loro, ispirarono colpi di stato “fascisti” in mezzo mondo, sostenendo delinquenti come Pinochet e – finché fece comodo – la Giunta militare argentina, Noriega e Saddam Hussein. La Seconda Guerra Mondiale non fu una lotta fra il Bene e il Male, come viene dipinta dalla propaganda (che “dimentica” il mancato e pur promesso ausilio alla Polonia invasa nel ’39), bensì un normale scontro tra potenze determinate a spartirsi il mondo. Furono commesse atrocità da ambo le parti: il bombardamento terroristico di Dresda e l’atomica “ammonitrice” su Nagasaki furono crimini contro l’umanità rimasti impuniti. The winner takes it all.

Ben meno ambigua e accondiscendente fu la condotta tenuta nei confronti del comunismo, elevato a nemico mortale e sempre spietatamente combattuto: l’Unione Sovietica appena nata fu aggredita da una coalizione internazionale che – a proposito di ipocrisia nominalistica – battezzò l’operazione “cordone sanitario” e l’ostilità non si attenuò con il passare del tempo, anche se esigenze contingenti condussero a un’innaturale alleanza contro Hitler che non sopravvisse alla fine del conflitto. Che gli statunitensi intendessero nel primo dopoguerra atomizzare l’URSS è cosa nota, anche se poco pubblicizzata: per fortuna i sovietici riuscirono a replicare la bomba, stornando la minaccia. Andò peggio a parecchi regimi di ispirazione marxista (e pure al guatemalteco Arbenz, che marxista non lo era affatto) che subirono le attenzioni “democratiche” di USA e servitù atlantica, oltre che a numerosissimi cittadini processati negli States per reati di opinione.

Insomma, il liberalcapitalismo occidentale e il fascismo nelle sue varie declinazioni sono parenti stretti, anche se la somiglianza è oggigiorno più evidente di quanto non fosse in passato: perciò – e mi spiace per chi finge di non accorgersene – un Macron vale una Le Pen e un Draghi una Meloni, fermo restando che il primo e il terzo sono meglio inseriti nel sistema.

Detto ciò, non minimizzo affatto i rigurgiti schiettamente fascist(eggiant)i avvertibili nel nostro Paese e in mezza Europa, essendo ben consapevole che un’agguerrita manovalanza mobilitabile rappresenta per il regime atlantista un’eccellente risorsa. La pedina non va però confusa con il giocatore: cinquecento anni fa Xitocencatl, condottiero tlaxcalano, attaccò nottetempo con le sue truppe gli spagnoli di Cortés, che ebbero però facilmente la meglio sugli assalitori anche grazie all’impiego di feroci e ben addestrati cani da guerra.

Asserire che la minaccia autoritaria è oggi impersonata dai “manipoli” di Acca Larenzia o dalle curve nord equivale a sostenere che la Repubblica di Tlaxcala si arrese ai mastini.

Nessun commento:

Posta un commento