martedì 23 luglio 2024

FABIO MINI. Guerre e distruzione: Biden e Trump pari sono.

Quale epoca d’oro. In Ucraina le armi occidentali non portano la vittoria. Il Medio Oriente è in fiamme, con la Cina è sfida aperta. E niente cambierà a breve.

 

FABIO MINI – ilfattoquotidiano.it

Assorbiti dalla razione quotidiana di stupidaggini e assuefatti alla mancanza di ragionamenti stiamo vivendo un’epoca tutto sommato felice. Di beata ignoranza. Duro quindi lo sforzo di recuperare un minimo di obiettività e ancora più duro trovare uno spiraglio in cui il caro, vecchio buon senso, motore della saggezza popolare, riesca a bloccare l’onda di mucillaggine pseudo-politica e geopolitica che ci sommerge. Come l’omonima flora marina che prospera con il caldo e l’abbondanza di “nutrimenti” naturali e sintetici, la propaganda ha intasato i filtri intellettuali, appesantito le reti e soffocato la vita di un mare cerebrale di per sé già chiuso, come il nostro Adriatico. Le crisi e i conflitti armati sembrano ormai cronicizzati o si vuol far credere che lo siano e per questo sono transitati dall’emergenza all’ordinarietà.

La finzione delle armi occidentali in Ucraina


In Ucraina la Russia sembra in stallo e Zelensky e i suoi fingono di credere che il sostegno occidentale possa ribaltare la situazione e portare a una vittoria militare a lungo invocata, ma mai seriamente ricercata perché palesemente onirica. In realtà Kiev appare rassegnata all’idea di dover perdere territori, faccia, credibilità e autonomia. Non solo teme una svolta con l’eventuale presidenza Trump, ma è al suo interno che la situazione è diventata insostenibile. Esauriti i combattenti e le strutture produttive l’Ucraina sta in piedi con le elemosine, umilianti e insufficienti per mantenere lo Stato, ma più che laute per ingrassare gli oligarchi. Ora cominciano a scarseggiare anche gli obiettivi da battere e la Russia si sta organizzando per colpire quelli nuovi che affluiranno dai Paesi Nato: cioè noi, felici e ignari di essere in guerra.

La sconfitta della civiltà nella Striscia di Gaza
In Medio Oriente, Israele ha già perso la guerra più importante, quella della civiltà contro la barbarie rinunciando alla prima e abbracciando la seconda che non si estingue con il grado di tecnologia ma si manifesta con l’efferatezza e la violazione delle leggi. In Libano, Israele colpisce i bagnanti incuranti o anch’essi ignari del fatto di essere in guerra mentre a Gaza continua l’eliminazione di un popolo. Si muore per fasce generazionali. Muoiono i padri e le madri, i loro figli in età fertile e quindi potenziali genitori, muoiono i bambini e con essi il futuro. Un piano scientifico “da manuale ”, eppure barbaro. Gli Stati Uniti e gli altri Paesi civili e progrediti che sostengono Israele rimangono imperterriti nel guado dell’ipocrisia fingendo umanità e alimentando la crudeltà. Mentre il “mostro” iraniano spiazza tutti proponendo una leadership più moderata, “Biden ha finalmente convinto i partner della Nato a dichiarare guerra alla Cina” (Nyt). Per ora siamo alla “faccia feroce”, alle minacce di sanzioni, ritorsioni e punizioni perché “Pechino alimenta la guerra russo-ucraina con la fornitura di componenti dual use (impiego civile/militare) “dai monopattini alle lavatrici”. Ma è evidente il paradosso della minaccia da parte di chi alimenta la stessa guerra non solo con i componenti ma con sistemi d’arma completi, soldi, munizioni, informazioni e uomini. Così, dopo aver assegnato il ruolo di nemico esistenziale agli Houthi dello Yemen e agli Hezbollah libanesi (le bande scalze che osano sfidare le portaerei e i missili) ora la Nato si dirige speditamente a fronteggiare il nuovo asse del Male. E i cinesi continuano a strabuzzare gli occhi (si fa per dire) increduli di fronte all’ostinazione occidentale nel farsi male da soli. In Europa dopo e a prescindere dalle elezioni, la priorità non è la guerra e meno che mai la pace, ma la conservazione delle poltrone comunitarie e della sudditanza transatlantica. Da parte loro gli americani trovano inutile e perfino sovversivo esaminare le ragioni dell’Iran, degli Houthi, di Hezbollah, dei palestinesi, dei russi e dei cinesi o di quel Terzo o Sud del mondo che in realtà, e non per paradosso, è più della metà del globo. È invece paradossale che mentre la stessa America s’interroga sulla salute fisica e mentale del proprio presidente nessuno consideri che la stessa persona, nelle identiche condizioni mentali e con gli stessi collaboratori di oggi, è quella che ha permesso, fomentato e alimentato la guerra in Ucraina e in Europa contro la Russia, tosato gli alleati e i vassalli come pecore grasse, destabilizzato il Medio Oriente e attizzato il fuoco cinese. È anche paradossale che il mondo si fermi e si ancori a pretesti bellici per via di una tornata elettorale che divide e inasprisce l’intero Paese e spaventa il mondo. È paradossale che nonostante il fallimento della Nato con la sua politica di deterrenza convenzionale e il tradimento del Patto Atlantico e della Carta dell’Onu da parte dei politici e burocrati euro-atlantici volti alla reiterazione di guerre di aggressione e provocazione, gli unici sforzi per un approccio più moderato vengano dai leader politici e capi di Stato trattati come paria da rivali pseudo-democratici. Avranno senz’altro i loro motivi, ma casualmente tali motivi consentono di salvaguardare gli interessi dell’intera Europa molto più delle estemporanee e arroganti posizioni dei burocrati internazionali. In particolare, sono soltanto questi “paria” a vedere chiaramente il pericolo che la continuazione del conflitto e del sostegno all’Ucraina porti al crollo dell’Ucraina stessa e alla guerra nucleare in Europa. I presupposti della guerra a oltranza contro la Russia stanno crollando. I politici che li hanno sostenuti hanno perduto in casa propria eppure in Europa come nella Nato sopravvivono gli apparati nei quali impazzano i “nuovi europei” assetati di vendetta ideologica. La stessa retorica dell’aggressore e dell’aggredito sulla quale hanno puntato i fautori della guerra si è dimostrata falsa con l’ammissione della Nato di aver usato l’espansione territoriale come strumento di pressione e provocazione nei confronti della Russia. O l’ammissione della Germania di aver “scherzato” con gli accordi di Minsk. In oltre due anni di guerra, la Russia ha dimostrato nei fatti ciò che aveva dichiarato per iscritto: non avrebbe invaso tutta l’Ucraina e non avrebbe minacciato la Nato. Chi tira in ballo ancora oggi la violazione russa del diritto internazionale considera soltanto ciò che fa comodo e da quando fa comodo. Il diritto internazionale lascia uguale spazio giuridico anche all’intervento a difesa di un popolo minacciato, la protezione delle genti, il diritto all’autodeterminazione dei popoli. L’Ucraina e la Russia in questo apparente stallo preelettorale si stanno muovendo verso una stessa direzione: limitare i danni di una svolta politica americana, in un senso o nell’altro. La Russia non è interessata a colpire le grandi città ucraine, le basta aggirarle e isolarle. Sta rafforzando le difese interne e il consenso popolare degli oblast annessi, ma si prepara anche alla rinuncia a tali annessioni nel caso l’Ucraina si dichiarasse neutrale. Sarebbe questo un passo importante per tutta la sicurezza europea e proprio per questo sarà osteggiato non solo dagli americani, ma dagli stessi europei imbambolati dalla dose massiccia della loro stessa propaganda che si sono voluti sorbire. In caso di conflitto diretto con la Nato o di provocazione militare di uno dei Paesi membri, in particolare Polonia e Gran Bretagna, la Russia è pronta ad allargare il conflitto e colpire pesantemente con o senza armi nucleari le parti in guerra. Tuttavia, la Russia mantiene attivo il collegamento del controllo nucleare con gli Stati Uniti e quello tattico con le forze armate ucraine. È un processo dialettico anche se in senso negativo: non dialogano ma si confrontano, con atteggiamenti seri e altri truffaldini. È seria la trattativa sullo scambio dei prigionieri, truffaldina la proposta di Zelensky d’invitare la Russia alla prossima conferenza esplorativa sulla pace. Visto il fallimento della prima, Zelensky vorrebbe portare la Russia sul banco degli imputati come ha fatto alle Nazioni Unite. La Russia lo sa e per questo, come si usa fare in diplomazia, vuole prima accordarsi sul risultato e poi partecipare alla conferenza.

Le Presidenziali americane e le conseguenze europee
La variabile sull’esito delle elezioni americane è di fatto un falso. Che vincano i candidati democratici o il duo Trump- Vance la prospettiva per l’Europa non cambia. Nel primo caso americani ed europei continueranno a inviare armi, l’Ucraina a usarle contro la Russia che risponderà colpendo altri Paesi europei. La Polonia è già stata avvertita. L’Europa sarà costretta a incrementare le spese e le produzioni militari sottraendo risorse a tutti gli altri settori, a partire dalle transizioni tecnologiche, energetiche e ambientali. L’Ucraina sarà soltanto un campo di battaglia del teatro di guerra europeo: una battaglia in cui nessuno vince ma solo l’Ucraina come Stato e nazione perde. Con Trump-Vance, la situazione cambierebbe molto se gli Usa sospendessero le forniture all’Ucraina, trovassero un accordo con la Russia per la sicurezza europea (neutralità ed esclusione dell’Ucraina dalla Nato) e costringessero gli europei ad accettarlo. Purtroppo questo è molto improbabile: dalle recenti dichiarazioni trumpiane appare chiaro che gli Usa non hanno voglia di risolvere il problema della sicurezza in Europa. Anzi, complici gli stessi vertici dell’Unione, vogliono eliminarla come potenziale concorrente politico-economico e ridurla allo stato di cliente da spennare restringendola in un ambito di continua insicurezza.

In Europa e nel mondo, gli Usa vogliono semplicemente aumentare i profitti provenienti dai tributari e dagli alleati e ridurre i rischi di scontro nucleare strategico. Vogliono che a combattere in Europa siano gli europei, come i coreani in Corea, i giapponesi e gli altri asiatici in Asia e gli australiani in Oceania. Vogliono che le armi da dare all’Ucraina contro la Russia, a Israele contro tutti, a Taiwan e all’Australia contro la Cina siano americane o prodotte da compagnie americane. Non potendo esercitare il monopolio nucleare a livello globale gli Stati Uniti vogliono mantenere la libertà di esercitare la deterrenza strategica senza il rischio di ritorsioni sul proprio territorio o sulle proprie basi sparse per il mondo. Vogliono che tale condizione d’invulnerabilità strategica si estenda a terzi di loro gradimento e sia negata ai non graditi. Vogliono che la copertura strategica sia un “servizio” offerto agli amici e clienti a un prezzo iniquo e tasso usuraio. Non solo in termini di soldi, ma prima di tutto in termini di obbedienza politica e sudditanza economica. Tuttavia è chiaro che tale condizione d’invulnerabilità non è ancora effettiva e anzi durante gli ultimi 75 anni è cresciuto il dubbio che gli Stati Uniti rischino una guerra nucleare per salvare qualcun altro. Inoltre la stessa invulnerabilità strategica non elimina e anzi aumenta il rischio dell’impiego regionale o settoriale di armi nucleari cosiddette tattiche.

Le armi strategiche e l’escalation nucleare
In Europa l’uso di tali armi da parte russa o Nato sarebbe una catastrofe irrimediabile e Ucraina e Polonia ne sarebbero le prime vittime. In Medio Oriente, Iran, Siria, Iraq e Libano sarebbero le prime vittime di quelle israeliane e Nato, in Estremo Oriente la Corea del Sud, Taiwan e lo stesso Giappone sarebbero le prime di quelle della Corea del Nord, della Cina o degli Stati Uniti. Un monito, questo, per chi alimenta la guerra dicendo di voler aiutare, far vincere, difendere o salvare l’Ucraina, il Libano, la Corea o Taiwan. Purtroppo neppure le elezioni americane che tutti attendono con trepidazione saranno in grado di modificare il quadro conflittuale estero voluto dagli Stati Uniti. Anzi si sta deteriorando quello interno non tanto e non solo per l’agone politico, quanto per una tara che accomuna qualsiasi schieramento. “La politica estera degli Stati Uniti è prigioniera della Storia?” si chiede retoricamente la politologa Joanna Rozpedowski su Modern Diplomacy. Ovunque a Washington aleggia il fantasma della Guerra fredda, dello scontro ideologico e c’è sempre un nemico identico a Hitler, Mao o Stalin. I successi veri o presunti del passato sono mitizzati e allo stesso tempo inchiodano il pensiero politico. Gli Stati Uniti dovrebbero rimodulare la propria visione del mondo “riconoscendo la natura multipolare dell’attuale ordine mondiale “e non lo fanno. “Dovrebbero confrontarsi con altre analisi politiche anche contrastanti” e non lo fanno; “dovrebbero rinunciare all’allarmismo, alla retorica del “noi contro loro” e all’abuso della minaccia dell’uso della forza e non lo fanno. Sono prigionieri della propria storia, la storia del “secolo americano” che dalla Seconda guerra mondiale in poi ha visto soltanto guerre e insuccessi laceranti, all’estero e all’interno. Primo fra tutti il declino della loro democrazia che tuttavia è ancora celebrata come modello da esportare. Di questo declino si sono accorti, come al solito, soltanto i giullari secondo i quali “gli americani a forza di esportare democrazia ne sono rimasti senza”.

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