venerdì 12 luglio 2024

Come sempre "per il nostro bene". La roulette russa.

Oggi lo psicopatico non si aggira furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, come nei film dei gangster degli anni Trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite. (JAMES HILMAN) 


(Francesco Prandel – lafionda.org)

Il rischio R si calcola moltiplicando la probabilità P che si verifichi un evento dannoso per l’entità D del danno che verrebbe arrecato da quell’evento (R=P´D). Negli ultimi mesi ho avuto modo di confrontarmi con diverse persone sul rischio che l’attuale situazione geopolitica degeneri in un conflitto nucleare globale. Salvo in alcuni casi, ho avuto l’impressione che questo rischio sia largamente sottovalutato. A mio avviso molti sottostimano la probabilità P, altri il danno D, altri ancora entrambi i fattori.

La probabilità P che si arrivi in tempi brevi a una guerra nucleare mondiale viene in genere ritenuta piuttosto bassa sulla base del seguente argomento: nessuno dei contendenti è stupido, tutti sanno che la guerra nucleare non ammette vincitori, che porterebbe alla mutua distruzione assicurata, per cui nessuno premerà il pulsante per primo. L’argomento forse ha una sua plausibilità, ma trascura due aspetti non trascurabili.

Primo. Qualcuno potrebbe avere la presunzione – più o meno fondata – che le sue strategie di attacco preventivo e i suoi sistemi di difesa lo mettano in grado di annientare il nemico senza soccombere a sua volta, ossia subendo danni che ritiene “accettabili” (naturalmente, a ritenerli tali, sarebbero coloro che hanno a disposizione bunker antiatomici di tutto rispetto). Secondo. Non tutte le scelte sono frutto della premeditazione, certe sono indotte da errori di valutazione irreversibili. “Le nazioni sono entrate in guerra perché si sono male interpretate” fa notare la protagonista del film “The Interpreter”. Nella situazione attuale, questa possibilità è quanto mai concreta per via dei ruoli antitetici che vi gioca il fattore tempo.

Per certi versi, la possibilità di errore aumenta con il protrarsi dello stato di tensione. La crisi dei missili di Cuba del 1962, uno dei momenti più caldi della guerra fredda, è durata tredici giorni. La partita NATO-Russia che si gioca in Ucraina va avanti ormai da più di due anni. Mantenere la lucidità per qualche giorno è una cosa, riuscire a farlo per qualche anno è cosa ben diversa. A furia di scrutare l’orizzonte, come ne “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, il rischio è quello di veder arrivare il nemico anche se non c’è. Inutile dire che, con gli arsenali nucleari pienamente operativi, e con la macchina militare in stato di allerta, questo genere di allucinazioni può esserci fatale.

Per altri versi, la possibilità di errore aumenta con il ridursi del tempo a disposizione di chi deve decidere. Come si suol dire, “la fretta è una cattiva consigliera”. Se uno dei “due litiganti” rilevasse – o credesse di rilevare – attività che fanno presagire un attacco imminente, avrebbe poco tempo per decidere che fare. Se attaccasse lui per primo, avrebbe buone possibilità di distruggere parte delle testate nemiche prima che vengano lanciate. Altrimenti, se decidesse di attendere per valutare gli sviluppi della situazione, potrebbe perdere il vantaggio del “first strike”, con il rischio di ritrovarsi nella condizione di inferiorità in cui avrebbe potuto mettere l’avversario se non avesse esitato. Come ne “La guerra di Piero” di De Andrè, il minimo indugio potrebbe risultare esiziale. Anche se, alla fine, potrebbe non esservi alcun “terzo” a godere.  

Il danno D che verrebbe arrecato da un conflitto nucleare su larga scala è difficilmente sopravvalutabile. La terza guerra mondiale durerebbe un’ora, forse meno. Passata la quale, il mondo come lo conosciamo non esisterebbe più. I più fortunati sarebbero quelli che si trovano vicino agli obiettivi, perché verrebbero vaporizzati all’istante: morirebbero quasi senza accorgersene. Per i sopravissuti, invece, si spalancherebbero le porte dell’inferno. A quelli un po’ più lontani dall’epicentro andrebbe meno bene, ma morirebbero comunque entro poco tempo in preda ai dolori atroci procurati dalle ustioni gravi e diffuse. A tutti gli altri andrebbe anche peggio: li attenderebbe una lunga agonia, corrosi dalle radiazioni e trafitti dal gelo dell’inverno nucleare.

Sulla scorta di quanto considerato, la probabilità P non pare infinitesima, e men che meno nulla, mentre il danno D risulta difficilmente quantificabile, ma è senz’altro ingentissimo, direi quasi incommensurabile proprio perché tendente all’infinito. In sintesi, risulta del tutto ragionevole ritenere estremamente elevato il rischio R=P´D che stiamo correndo. A ciò si aggiunga il fatto, messo in luce da diversi analisti, che la contesa in atto si configura come una guerra esistenziale, cioè come una guerra che nessuna delle due parti può permettersi di perdere. Il ché, se da una parte lascia invariato il danno D, dall’altra va ad incrementare la probabilità P – e dunque il rischio R – ogni giorno che passa. Forse per questo il presidente serbo Vučić ha recentemente stimato che, di questo passo, l’apocalisse nucleare non si farà attendere più di “tre o quattro mesi”.

Gli stessi che ieri dicevano di volerci salvare dal virus, oggi stanno creando i presupposti di un conflitto nucleare globale che – oltre a rendere inabitabile il pianeta per parecchi anni – sterminerebbe gran parte dell’umanità. Durante la pandemia i media di regime non facevano altro che rimarcare la pericolosità di un virus che ha mietuto qualche milione di vittime in tutto il mondo. Oggi, a fronte della sempre più concreta possibilità che perdano la vita qualche miliardo di persone – mille volte di più – gli stessi media non perdono occasione per ribadire che la Russia va sconfitta, costi quel che costi. Per il nostro bene, naturalmente.

E si guardano bene dall’informare la popolazione sul rischio che sta correndo grazie alle ambizioni demenziali di un manipolo di psicopatici a stelle e strisce, e dei loro docili sudditi europei. Se lo facessero, se più giornalisti facessero il loro mestiere, se l’uomo della strada sapesse che da un momento all’altro può finire vivo in un inferno ben più orribile di quello che Dante ha riservato ai morti, forse avremmo ancora la possibilità di fermare quel treno che si è messo in moto e “ha già lasciato la stazione”, come ha recentemente affermato – trattenendo a stento le lacrime – lo stesso Vučić. 

Per trasformare ogni somma di denaro in una somma più grande, il capitalismo consuma il mondo intero – sul piano sociale, ecologico, estetico, etico. Dietro la merce e il suo feticismo si nasconde una vera e propria pulsione di morte, una tendenza, incosciente ma potente, verso l’annientamento del mondo.

ANSELM JAPPE

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