Ci sono immagini che nessuna parola può sostituire. Ciascuno di noi le può facilmente “consumare” sui social media: un bambino di sei anni ridotto a scheletro, morto di denutrizione.
(CLARA MATTEI – ilfattoquotidiano.it)
Il caso palestinese mette a nudo la verità del nostro sistema socio-economico, nei suoi molteplici aspetti. Innanzitutto lo svuotamento di senso del concetto di democrazia: emerge la faccia di un sistema oligarchico e autoritario in cui l’élite utilizza tutti i suoi patetici strumenti per occultare i processi in atto e operare uno scollamento semantico. Gli Stati Uniti, come forza trainante del capitalismo avanzato, rappresentano il caso più eclatante. Se, mesi fa, la Cnn aveva già licenziato tutti i suoi conduttori arabi, sospetti di portare troppa attenzione al caso, il New York Times – come tutte le grosse testate – riduce il massacro in corso a una nota a piè di pagina. Lo scorso mese il Congresso americano ha persino approvato una norma che vieta al Dipartimento di Stato di citare le statistiche sui decessi fornite dal Ministero della Salute di Gaza. Rashida Tlaib, unica rappresentate palestinese al Congresso, ha così commentato: “Stiamo osservando il governo di apartheid israeliano compiere un genocidio a Gaza in tempo reale e questa norma è un tentativo di nasconderlo”. L’establishment statunitense si libera in tutti i modi di possibili voci critiche. Emblematico il caso del rappresentante di sinistra Jamaal Bowman: l’American Israel Public Affairs Committee ha speso quasi 15 milioni di dollari per farlo capitolare nelle primarie democratiche. Gli Usa rappresentano un ulteriore trend globale. Mentre al loro interno i livelli di emarginazione sociale e povertà crescono esponenzialmente, incarnati dalla crisi dei senza tetto che raggiunge dimensioni sconcertanti (100 mila soltanto nella città di New York, 30mila dei quali bambini), le tasse che pagano sproporzionatamente le famiglie delle classi lavoratrici non vanno alla spesa sociale. Il debito pubblico cresce per incrementare le ricchezze dei grandi shareholder, con elargizioni pubbliche ai privati, specialmente del settore militar-industriale. Soltanto negli ultimi 10 mesi il Congresso ha approvato 12,5 miliardi di dollari in aiuti militari. “L’assistenza” militare si traduce direttamente in crescita economica e business garantito per la fitta rete di più di 50 multinazionali che partecipano alla strage di Gaza. Da General Motors a Ghost Robotics fino a Google e altre AI companies che forniscono gli algoritmi della morte (si pensi alle rivelazioni sui sistemi “The Gospel”, “Lavender” e “Where is Daddy”).
Come racconta lo studioso Andreas Malm, il militarismo strutturale al capitalismo sostiene la sua sete estrattiva. A novembre, quando la maggior parte del nord di Gaza era stata ridotta in macerie, Chevron ha ripreso le operazioni nel giacimento di gas Tamar (sulle coste di Gaza). Il giorno dopo l’inizio dell’invasione terrestre di Gaza, lo Stato di Israele ha concesso 12 licenze per l’esplorazione di nuovi giacimenti di gas: una delle società che le ha ottenute è stata BP. Sin dall’inizio questo massacro è apparso come uno “sforzo transnazionale” dei Paesi capitalisti dell’Occidente. “Le nazioni industrializzate timorose del caos globale stanno inviando un messaggio minaccioso al sud del mondo e a chiunque pensi alla rivolta: vi uccideremo senza riserve e nessuno ci fermerà. Un giorno saremo tutti palestinesi” è l’inquietante analisi del giornalista americano Chris Hedges.
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