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di Clara Statello
Per quasi dieci anni la guerra
in Donbass non è stata raccontata o è stata raccontata solo dal lato di
Kiev. I cittadini delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, la
loro lotta, la loro tragedia e la loro voce non hanno trovato molto
spazio nell’informazione mainstream. Pochi giornalisti sono passati
dall’altro lato del fronte, per mostrare con le loro telecamere la
realtà complessa della guerra. Uno di questi è Bruno Carvalho,
giornalista indipendente portoghese, che collabora, tra gli altri, con
CNN Portugal e la Television Publica Basca, e che si è recato diverse
volte sulle terre bombardate dalle forze ucraine, prima e dopo il 24
febbraio 2024.
Bruno tu sei stato diverse volte in Donbass, anche
prima che la Russia entrasse in guerra. Che situazione hai trovato e
qual è stato il tuo primo impatto?
Prima di tutto grazie per l’invito. Quando sono arrivato per la prima volta nel 2018 è stato molto strano perché in quel momento c’era molta poca informazione, i media occidentali quasi non parlavano di questa guerra, era come se non esistesse.
Lì ho potuto parlare con civili, militari, leader politici e ho compreso che era in corso una guerra civile, che c’era un popolo disposto a lottare per difendere la libertà di organizzarsi nella forma che voleva e allo stesso tempo che in Europa c’era una guerra silenziata, con molte vittime civili.
Ho potuto raccogliere molte testimonianze, anche se la guerra nel
2018 avrebbe dovuto essere in una fase di relativa calma per gli
accordi di Minsk. La verità, però, è che l’artiglieria ucraina
continuava a colpire la città di Donetsk e le altre del Donbass.
Come vi hanno accolto gli abitanti quando siete arrivati lì?
Bene. Io credo che in quel momento la gente voleva che noi giornalisti che mostrassimo al mondo quello che stava accadendo. Per questa ragione c’era molta curiosità nel sapere chi fossimo. Le persone avevano molta voglia di raccontarci ciò che stavano vivendo e ciò che volevano come popolo: non solo il desiderio di essere vicini alla Russia per cultura, lingua e per il passato storico, ma anche di non voler integrarsi in uno Stato come l’Ucraina nata dal colpo di Stato del Maidan. Mostravano sempre molto interesse e volevano parlare con noi per mostrarci quello che stava accadendo.
Che atteggiamento avevano le persone verso la guerra e i miliziani “filorussi” in quel momento?
Le persone con cui ho parlato avevano molto rispetto e ammirazione per i combattenti, alcuni sono considerati dei veri eroi come per esempio Mozgovoy, Givi, Motorola, Zakharchenko. C’era molta ammirazione verso questa gioventù. Allo stesso tempo ho parlato con persone che non si aspettavano nulla dagli accordi di Minsk. Dicevano che l’Ucraina non li avrebbe rispettati e che nessuno, né l’Europa né l’Occidente, l’avrebbe costretta. Ho conosciuto anche alcuni che chiedevano un intervento della Russia, un intervento militare, per porre fine alla guerra. Non la maggioranza delle persone con cui ho parlato, ma alcuni.
Quando sei tornato dopo il 24 febbraio 2022 come hai trovato Donetsk?
Io credo che il livello di violenza fosse completamente diverso, i bombardamenti erano quotidiani e c’erano diversi morti al giorno. La popolazione subiva una pressione molto forte, non solo a Donetsk, anche a Lugansk, Gorlovka, e tutte le città paesi vicino al fronte. Man mano che la guerra andava avanti ho avuto l’opportunità di visitare gli insediamenti che cadevano in mano delle forze pro-russe. Lì ho ascoltato le testimonianze dei crimini commessi dalle forze ucraine. E alla fine ho potuto constatare che questa gente si sente parte della cultura russa e non capisce perché sia in corso una guerra che divide persone che parlano la stessa lingua, professano la stessa religione, hanno un passato storico comune collegato all’Unione Sovietica. Con il passare del tempo, dei mesi, ho visto le cose che stavano accadendo e tutti i tipi di crimine. Io non sono qui per negare i crimini contro la popolazione civile che vive dall’altro lato, però il mio lavoro lì era riportare quello che vedevo da quel lato. E la verità è che l’Ucraina ha commesso e ancora commette crimini di guerra contro la popolazione civile nel Donbass.
Che tipo di crimini hai visto?
Ti posso parlare di ospedali bombardati, ti posso parlare di trasporti pubblici che sono stati attaccati, ti posso parlare di aree residenziali che sono state distrutte, compresi hotel. Ricordo il caso del Donbass Palace, un hotel pieno di giornalisti che è stato attaccato provocando la morte di una donna che passava lì davanti. Reparti di maternità che sono stati colpiti dai raid. Ci sono innumerevoli casi, ho passato tanti mesi lì e ogni giorno succedeva sempre qualcosa, qualcosa di tragico, da sommare alla lista dei crimini contro la popolazione civile.
Tu sei stato anche a Mariupol durante i combattimenti. Puoi raccontarci quello che hai visto e che più ti ha impressionato?
Sono arrivato a Mariupol quando le forze russe avevano iniziato a liberare il centro della città, spingendo l’esercito ucraino verso il porto e l’Azovstal. La popolazione iniziava ad uscire, lentamente usciva da sotto terra, dagli scantinati in cui si nascondeva. Alcuni di loro mi hanno raccontato di essere stati presi di mira dal fuoco delle forze ucraine, in particolare del battaglione Azov, che era la principale forza della città di Mariupol. Altre persone che ho conosciuto mi hanno raccontato che utilizzavano scuole e biblioteche come punti di difesa. L’intera città è stata utilizzata dalle truppe ucraine, in pratica, come base militare per difendersi.
Ma, naturalmente, ciò che mi ha sconvolto di più è stata la vista delle tombe di civili nelle strade e nei giardini pubblici. La gente non aveva modo di seppellire i propri cari. Un uomo mi ha raccontato che ha dovuto seppellire sua figlia e sua moglie con l'aiuto dei vicini davanti al suo palazzo. Ho visto corpi sulle spiagge di Mariupol, ho contato i corpi che erano all'interno del Teatro Madrid. Quindi.
E’stata un'esperienza davvero dura, nel senso che bisogna confrontarsi ogni giorno con le morti dei civili, ma allo stesso tempo non dimenticare che i vivi che sono rimasti stanno soffrendo molto, che non hanno acqua, non hanno cibo e hanno bisogno di aiuti urgenti. Un giorno stavo lavorando con un altro giornalista e una signora stava passando con un'altra e quest'altra ha colpito una mina antiuomo. La gamba dell'altra signora ha iniziato a sanguinare, piena di frammenti.
Io e l’altro giornalista abbiamo dovuto aiutarla. Abbiamo provato a fermare l’emorragia con un tourniquet e poi abbiamo cercato qualcuno che venisse a prenderla perché eravamo in una zona lontana dalla città.
E chiaro che a collocare le mine lì erano stati gli ucraini, perché a piazzarle sono sempre le forze che retrocedono e che hanno bisogno di difendersi. L’esercito ucraino le aveva disposte in varie parti della città per proteggersi. Queste signore sono due vittime civili di queste mine antiuomo.
Ad un certo punto i media mainstream hanno parlato di
fosse comuni a Mariupol, rinvenute al cimitero di Mangush. Sei stato lì è
hai scoperto che si trattava di normali sepolture, ovvero hai
contribuito a smascherare una fake news. Ne hai trovate di altre?
Questa notizia si basava su immagini satellitari di società degli Stati Uniti, secondo cui lì c’erano fosse comuni. La stessa cosa la diceva il sindaco nominato da Kiev, che però non stava più a Mariupol. Noi abbiamo scoperto che si trattava sì di tombe di persone morte a Mariupol, però non erano fosse comuni. Questo vuol dire che nessuno stava tentando di nascondere la sepoltura di questa gente.
Erano civili morti che pertanto dovevano essere seppelliti, un atto assolutamente naturale dentro la tragedia. Questa gente non sarebbe dovuta morire ma doveva essere seppellita.
C’è stato un tentativo di strumentalizzare la morte di queste persone, per dare l’idea che fossero stati giustiziati in massa e che i loro corpi fossero stati occultati, ma non è successo questo.
In ogni guerra ci sia disinformazione e propaganda, ma in questa c’è un livello smisurato anche perché ci sono mezzi tecnologici che lo consentono. Dunque è molto importante che il lavoro di un giornalista sia quello di verificare se una notizia è reale o no. Ci sono stati molti episodi del genere, quando Donetsk veniva bombardata l’Ucraina sosteneva che fossero stati gli stessi russi. Questo è totalmente assurdo perché molto spesso i luoghi bombardati erano gli stessi uffici del governo locale, hotel in cui alloggiavano giornalisti russi. Pertanto per la Russia non avrebbero alcun senso azioni del genere.
Un’altra volta i media hanno detto che la Russia stava bombardando l’Azovstal con fosforo. Io ero stato tutto il pomeriggio lì e non ho assistito a questo tipo di bombardamento. Sembrava di vivere in un mondo parallelo, perché noi stavamo lì, ma i media raccontavano un’altra storia.
E’ accaduta la stessa cosa nella centrale nucleare di Energodar: dicevano che i russi stessero bombardando la centrale che loro stessi stavano controllando. Noi lì abbiamo potuto comprendere meglio la direzione dei proiettili perché stando sul terreno era più facile vedere il punto di provenienza, il modo in cui cadono, il senso della traiettoria dell’artiglieria quando apre il fuoco. E chiaramente era l’Ucraina che stava bombardando tutta l’area. Potrei stare qui per ore a parlare, perché questa guerra sta lasciando un segno nella storia della propaganda e della disinformazione.
Sei stato minacciato o attaccato per il tuo lavoro?
Beh, ho ricevuto le normali minacce sui social network, ma sono stato oggetto di attacchi, di campagne per cercare di distruggere il mio nome e il mio lavoro, da parte di persone molto importanti della politica portoghese, da parte un ministro del Gobierno del Portogallo, di una ex candidata presidenziale, giornalisti, scrittori. Hanno cercato di creare una forte corrente di opinione per tentare di screditarmi e al tempo stesso fare in modo che non potessi lavorare sui media mainstream. Però questo è solo un esempio, perché possiamo parlare del caso di Pablo Gonzalez, che si trova da oltre un anno e mezzo in una prigione in Polonia e di tanti altri casi. I giornalisti che sono stati in Donbass, che con il loro lavoro mostrano quello che sta accadendo, diventano immediatamente il target delle campagne di discredito. Così si tenta di togliere forza di verità ai fatti che mostriamo.
Perché non è ammessa l’informazione che viene dall’altro lato?
Perché si vuole imporre una linea dominante, una narrativa unica su quello che sta accadendo. L’Occidente vuole difendere l’Ucraina e utilizza tutto il suo armamentario mediatico propagandistico per stare dalla parte dell’Ucraina. Gli Stati hanno tutto il diritto di farlo se rimangono nel solco della legge. Quello che però non possono fare è uccidere il pluralismo, uccidere la democrazia nei media, impedire che si abbia una visione globale di quello che sta accadendo.
Perché non ha alcun senso. I civili di Donetsk, i civili di Lugansk, i civili di Gorlovka sono civili esattamente come i civili di Kiev, di Lvov. Meritano che le loro voci arrivino nei telegiornali, nei quotidiani. E questo deve essere il nostro lavoro. Noi giornalisti dobbiamo lavorare in modo professionale, fornendo una prospettiva di quello che sta accadendo in tutta l’area geografica e politica del conflitto.
In Europa è diventato difficile fare informazione
alternativa. Come cambieranno le cose con la legge europea per la
libertà dei media?
Non penso che cambierà molto. La federazione europea dei giornalisti ha scritto una lettera alle istituzioni della UE per impedire agli Stati di utilizzare spyware contro di noi. E’ strano perché questa legge prevede diverse eccezioni al divieto di spiare i giornalisti, ad esempio quando è a rischio la sicurezza nazionale di uno Stato. Tempo fa una giornalista in Francia è stata arrestata per aver denunciato i crimini dei servizi segreti francesi contro la popolazione civile in Libia, pubblicando documenti classificati su un quotidiano. Adesso è accusata di aver messo a rischio la sicurezza nazionale. La stessa cosa è successa con Assange, Pablo Gonzales. Chi decide cosa mette o no a rischio la sicurezza nazionale? Questa è la questione che mette a rischio il nostro lavoro, l’utilizzo delle nostre fonti e la stessa democrazia.
Ti faccio l’ultima domanda: perché hai deciso di informare dal lato dei popoli del Donbass?
Beh a me è sempre piaciuto raccontare ciò che nessun altro vuole
raccontare. E naturalmente perché io ero già stato nel 2018 e ho
ritenuto importante tornare. Secondo alcuni è una vergogna, ma la verità
è che se non ci fossi io lì, non ci sarebbe nessuno e dunque nessuno
saprebbe quello che sta accadendo lì, perché non raggiungerebbe le
televisioni e la stampa. Però la verità è che lo sto facendo perché
voglio dare voce a chi non ha voce, agli invisibili. Per ciò ho scelto
questo lato.
Tornerai?
Probabilmente.
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