sabato 28 ottobre 2023

Crimini di guerra, l’accusa dell’Onu

Ci sono popoli dimenticati, tanti, troppi: i tibetani, i karen, gli yanomani dell’Amazzonia, gli uiguri del Xinjiang, i curdi, sì anche i curdi a cui dedichiamo attenzione quando ci servono, contro Saddam Hussein o il neo califfato, per scaricarli poi nel loro frammentato oblio.  

Crimini di guerra, l’accusa dell’Onu 

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it)

Conosciamo le loro tragedie, a menadito, certo: ma ci sono cose più importanti nel disordine mondiale per farcene carico. Non disturbano. Non hanno carri armati o bombe, non compiono attentati. Vegetano. È diventare inutili che dà un senso di disperazione. Israeliani e palestinesi, invece, non sono popoli dimenticati. Sono due popoli soli. E forse questo è anche peggio. Ieri l’Onu li ha accumunati: nella condanna dei crimini di guerra che entrambi avrebbero commesso!

Nell’ennesimo atto della tragedia in Palestina, in un momento in cui la Storia non ci dà tregua, sappiamo a memoria riepilogare tutto ciò che li divide, una unica terra che entrambi considerano loro, il vizio assurdo, i morti innumerevoli di ieri e di oggi, esser l’uno Occidente e l’altro Oriente. Dire che’ “la questione ha due lati” è una espressione che comincio a detestare. Perché oggi si evoca, dalle due parti, l’incubo di una’ “distruzione’’. È con questa paura, peraltro, che ha sempre convissuto Israele. Possiamo esser certi che l’Occidente non lo permetterà? 
Tutte le iperboli ora sono destinate al silenzio. Può accadere di tutto, tutti sono in scena, Usa, Turchia, Iran, arabi, russi, jihadisti, e proprio per questo, soprattutto per questo, non si può prevedere cosa di peggio potrebbe venirne.

Proviamo a rovesciare la prospettiva e cerchiamo cosa può unirli.

E ad attingervi una direzione, una fede, proviamo a farne strumento di comune salvezza. A costo di dire cose brutali, irritanti, di fare scandalo. Questa verità delle verità credo sia proprio la comunanza nella solitudine. La solitudine di chi rifiuta di rintanarsi nel silenzio della dimenticanza, di scavarsi un angolino nello spazio fisico che gli è stato gettato come una elemosina: vivete lì e non disturbate più il motore del mondo.

Questi due popoli avanzando, tragicamente, su un lungo cammino comune da più di settanta anni, hanno avuto il coraggio di gridar forte il problema, la stonatura, la ferita impressa dalla realpolitik della ipocrisia. Di ribadire, contro ogni bugia comoda, che con la creazione di due Stati non è mutato un fatto: entrambi non possono dare per scontato e garantito il loro diritto a vivere. Altri sì, europei americani australiani giapponesi sì. Loro no, non sono stati messi in grado di considerare il diritto alla vita un diritto naturale. Non è un problema di colpe originarie. È un problema di condizioni storiche in cui sono stati costretti.

Non è per senso di giustizia e per amore che Israele e l’Entità palestinese sono stati creati da chi comandava il mondo. Nessuno nella Storia ama gli altri uomini. È per sé stessi che vengono fatte scelte importanti, spesso definitive e matrici di lunghe tragedie. Israele è nato da un rimorso, quello dell’Europa che si sentiva, tutta, colpevole della Shoah, innanzitutto, in cui gli assassini avevano agito fino all’ultimo nella omertà e nel silenzio, e prima ancora del lungo antisemitismo collettivo che attraversa l’Ottocento e il Novecento dove le zone senza macchie sono rare. Riservare l’antica terra dell’Esodo agli ebrei era solo un modo spiccio per saldare il conto, per dimenticare una colpa. Tanto è vero che nessuno si preoccupò delle conseguenze ovvero che appena proclamata la nascita di Israele gli arabi avrebbero cercato di distruggerlo. Fu solo la incredibile vittoria che salvò il piccolo Stato, non certo i suoi ambigui alleati ansiosi di dimenticarsene. E sono state ancora le guerre vinte e la forza a difenderlo da settanta anni, a forgiarne l’identità e talora anche gli errori.

Lo stesso vale per i palestinesi. Bisognava sbarazzarsi, in questo gli Stati arabi erano in prima fila, di questi irriducibili perturbatori dei campi profughi che non smettevano, invece di assimilarsi nei paesi dell’esilio, di reclamare la Palestina anche se sembrava imprendibile. E poi per l’Europa c’era il problema di interrompere “la diplomazia del terrore’’ con cui i palestinesi, e alcuni Stati che ne approfittavano per le proprie strategie, negli anni settanta e ottanta cercarono di ottenere con il ricatto ciò che non veniva loro concesso. La caricatura di Stato, l’Entità, che infine hanno ottenuto con i rimasugli di ciò che gli arabi, Giordania e Egitto, avevano perduto nel 1967, Gaza e la West Bank, è stato il modo per sbarazzarsene. E lavarsene le mani.

Allora è proprio in questa comune ribellione alla Storia l’idea che può liberarli da memorie rabbiose che li hanno resi estranei persino a sé stessi. Che li induce a eludere la loro biografia. Il desiderio di non morire, quasi una dimensione della mente che si estende nello spazio: palestinesi e israeliani sono il desiderio di non morire. Continuare ad essere, essere sempre, sbocciare e durare. Tutto quello che possiedono di forza, di energia e di lacrime, il tesoro della solitudine in cui specchiarsi, servirebbe a riunirli, non a dividerli. Se sapranno essere ebrei e palestinesi fino in fondo. Entrambi non devono redimere la terra, devono redimere la gente.

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