Gli stipendi degli italiani sono sempre più bassi.
Dai dati Ocse il loro potere d’acquisto (i cosiddetti salari reali) è
in calo in Italia dal 1990, più che in qualunque altro Paese sviluppato.
(di Milena Gabanelli e Rita Querzè – corriere.it)
Dove c’è il salario minimo
Su 27 Paesi Ue, 22 applicano il salario minimo, parametrato al costo della vita e all’andamento del mercato del lavoro. Stessa cosa per 30 su 38 Paesi Ocse. In Germania non si scende sotto i 2.080 euro lordi al mese, in Belgio 1.900, in Francia 1.750, in Spagna 1.250. La paga oraria minima non c’è in Italia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Austria. Se da domani venisse introdotto il salario minimo di 9 euro lordi, le imprese nel loro insieme dovrebbero aumentare il monte salari di oltre 2,8 miliardi. Secondo i detrattori della misura, il salario minimo potrebbe innescare un meccanismo al ribasso: chi oggi paga meno di 9 euro con un contratto regolare potrebbe ricorrere al nero; chi invece applica un contratto poco sopra i 9 euro l’ora sarebbe tentato di abbandonarlo per passare al salario minimo. Nella pratica tutto questo nei Paesi europei che già da anni hanno introdotto il salario minimo non è mai avvenuto. Il ricorso al nero invece è una piaga tipica del nostro Paese, e che andrebbe stroncata con maggiori controlli.
La posizione del Cnel
Su richiesta del governo, il Cnel si è espresso sul salario minimo per legge: 39 consiglieri contrari su 62. Per il Cnel è un provvedimento non necessario soprattutto per un motivo: in Italia la contrattazione collettiva è forte e definisce già salari minimi per ogni settore. In effetti anche la Commissione europea è convinta che un salario minimo contrattato sia meglio di uno definito per legge, tanto che impone il salario legale soltanto ai Paesi dove la contrattazione nazionale copre meno dell’80% dei dipendenti. E da noi la contrattazione fra le parti sociali copre almeno il 95% dei lavoratori: il 92% con contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil e il 3% dai sindacati minori. Ad avere invece il contratto di una sigla pirata, cioè nata apposta per firmare accordi al ribasso, è soltanto lo 0,4% dei lavoratori dipendenti. Questi numeri però non dicono tutta la verità.
I contratti sotto i 9 euro
La Fondazione dei consulenti del lavoro, analizzando solo i principali accordi, ha individuato ben 22 contratti di categoria sotto i 9 euro lordi l’ora, firmati da Cgil, Cisl e Uil: c’è il personale delle cooperative e consorzi agricoli con retribuzioni d’ingresso a 8,4 euro; quello dei dipendenti delle imprese di pulizia a 8,1; i dipendenti dell’industria delle calzature a 7,9; del vetro a 7,1. Fino ad arrivare agli addetti della vigilanza pagati 5,37 euro l’ora da un contratto firmato non da sindacati di comodo, ma da quelli confederali con il mondo delle cooperative. In questo caso è intervenuta la Cassazione, che, con la sentenza del 2 ottobre scorso, ha definito l’accordo non in linea con la Costituzione (articolo 36), perché la retribuzione garantita non ha le caratteristiche di «proporzionalità e sufficienza». Nella pratica da anni la contrattazione in molti settori non riesce più a negoziare salari decenti. La maggior parte degli accordi al ribasso sono firmati da associazioni delle imprese che fanno riferimento al mondo delle piccole aziende e della cooperazione, ma qualcuno anche da Confindustria. Tutto questo avviene per diverse ragioni intrecciate tra loro, a partire dal fatto che i sindacati in molti settori si sono indeboliti. Dove le aziende sono piccole non riescono nemmeno a entrare (in Italia il 95% delle imprese è sotto i 10 dipendenti). Inoltre, sono sempre più diffusi i contratti flessibili di ogni tipo: chi non è stabile difficilmente protesta.
La frammentazione dei settori
Solo nel settore privato i contratti sono un migliaio. Diversi comparti, dall’alimentare al tessile ai servizi, tendono a spezzettarsi in una enormità di sottosettori ciascuno con il suo accordo. Oggi c’è il contratto dei florovivaisti, delle società che fanno derattizzazione, degli installatori di piscine, dei produttori di spazzole e pennelli, di quelli delle lampade. Ovviamente chi esce dal «contratto madre» punta a dare ai dipendenti uno stipendio più basso e minori garanzie. È emblematico il caso dell’alimentare: fino a ieri facevano rifermento a Federalimentare 13 associazioni di categoria (i produttori di latte, bevande, acque minerali, di trasformazione, ecc), e tutte con un contratto unico. Recentemente si sono staccate quelle che rappresentano i produttori di farine, di mangimi e carni, e stanno negoziando un contratto parte. Improbabile che sia al rialzo. A complicare le cose poi è la nascita di sempre nuove associazioni delle imprese. Ciascuna firma un suo contratto. Così ci sono 242 contratti nazionali solo nel settore dei servizi. Nel metalmeccanico 50. Qui, rispetto a quello principale e più applicato, firmato da Federmeccanica, il contratto degli artigiani metalmeccanici paga 480 euro lordi in meno al mese, secondo le analisi interne della Fiom Cgil. Eppure a firmare sia l’accordo con Federmeccanica che quello con gli artigiani dell’industria sono sempre Cgil, Cisl e Uil.
I contratti nazionali scaduti
I contratti nazionali vanno rinnovati ogni tre anni. Oggi il 57% è scaduto da tempo, e la percentuale sale addirittura al 96% nei servizi dove sono fuori tempo massimo, tra gli altri, i contratti dei servizi di Confcommercio, Confesercenti, Federdistribuzione (tutti scaduti nel 2019), quello del turismo e dei pubblici esercizi di Confcommercio (scaduto nel 2021). Sono coinvolti in questo ritardo circa 7,5 milioni di dipendenti che devono fare i conti con l’impennata dei prezzi.
I contratti «pirata»
Su quasi 1000 contratti nazionali, ben 353 sono siglati da sindacati non rappresentati al Cnel. Si tratta di contratti firmati spesso da associazioni di comodo per produrre accordi al ribasso, e riguardano 54 mila lavoratori. Talvolta si tratta di un pugno di aziende che si mettono insieme con il supporto di un consulente del lavoro e di un sindacato compiacente. Prendiamo il caso di Federconcia, associazione di una ventina di imprese del distretto veneto della concia di Arzignano nata a giugno 2021 per firmare tre mesi dopo un contratto di categoria con un sindacato sconosciuto, il Confial. In concorrenza con il contratto principale del settore, firmato da Unic-Confindustria. Cgil, Cisl e Uil dei chimici si sono rivolti al tribunale contestando il comportamento antisindacale e hanno vinto. Ma hanno potuto andare per vie legali solo nelle aziende in cui erano presenti. Infatti in quelle più piccole, dove non hanno rappresentanti, il contratto continua ad essere applicato.
La proposta alternativa non viene dal Cnel
Il Cnel dice no al salario minimo ma non spiega come si rilancia la contrattazione. Un’idea ce l’ha invece la Fondazione consulenti del lavoro, presieduta da Rosario De Luca, marito della ministra del Lavoro Calderone. La proposta si basa sulla misurazione della rappresentanza dei sindacati e delle associazioni delle imprese: definire i settori, prendere per ciascuno l’accordo più rappresentativo per numero di aziende, dipendenti e valore prodotto, quindi applicare la paga minima e le tutele al resto del comparto, vietando accordi peggiorativi. Nel metalmeccanico vale quello di Federmeccanica, dove il salario d’ingresso è di 10,8 euro l’ora, e sotto non si va. Le altre organizzazioni potrebbero contrattare, sì, ma soltanto al rialzo. Ma potrà fare questo un governo sostenuto da piccole e numerosissime associazioni di categoria, premiate anche con un maggior numero di posti dentro al Cnel? È il caso di ricordare che quando i salari sono troppo bassi intervengono i sussidi, poi è necessario integrare pure le pensioni, e tutto finisce a carico della fiscalità generale.
dataroom@corriere.it
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