I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello bella alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna colpire l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto cretino. Io però non credo che Padoan sia un cretino. Non credo nemmeno che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite.
È vero che la loro applicazione ha prodotto un impoverimento generale, ma è anche vero che ha prodotto un arricchimento dei vertici della società. Un arricchimento in termini sia di ricchezza economica che di potere politico sulla popolazione generale. Un gigantesco trasferimento economico dal basso verso la punta della piramide. Ha consentito una profonda ristrutturazione dei rapporti giuridici e sociali in favore delle classi dominanti a livello globale. Ma ha anche fatto gli interessi della classe dominante italiana, della cosiddetta casta, una classe parassitaria che deriva sia il suo benessere economico che la sua capacità di mantenere la poltrona dalla quantità di risorse che riesce a prendere al resto della popolazione. E le prende attraverso le tasse, perlopiù. I principi economici portati avanti da Padoan aumentano la pressione tributaria, aumentano le risorse che tale classe riesce a prendere per sé. Quindi vanno bene per la casta.