sabato 13 aprile 2024

Pensionati che muoiono sul posto di lavoro

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Mario Pisani aveva 73 anni, Vincenzo Garzillo 68: il primo è tra i morti per l’esplosione della centrale Enel di Bargi. Anche il secondo è stato ritrovato senza vita dopo esser stato a lungo tra i dispersi. Aveva lasciato il lavoro da appena un anno.

Ma perché dei pensionati continuano a lavorare all’interno di subappalti in condizioni di evidente pericolo visto, il numero esorbitante di morti e di infortuni anche molto gravi che si verificano costantemente all’interno di quei contesti lavorativi?

La risposta è nell’intreccio di cause e di norme criminali per le quali dobbiamo ringraziare invariabilmente tutti i governi che si sono succeduti alla guida del governo del paese nel corso degli ultimi decenni.

Governi che, godendo della complicità delle maggiori centrali sindacali, pezzo dopo pezzo, hanno smontato tutte le conquiste del movimento dei lavoratori, comprimendo salari e diritti e distruggendo il sistema previdenziale pubblico e solidale per consegnarne le spoglie alle assicurazioni private mediante l’introduzione del calcolo contributivo in base al quale si erogano pensioni da fame, in modo da spingere i lavoratori verso il mercato delle previdenza integrativa.

E allora ecco che, nel nostro paese, tanti continuano a lavorare anche dopo essere andati in pensione ed accettano pure lavori pesanti o ad alto rischio, come nel caso dei due pensionati che hanno perso la vita all’Enel di Bargi.

Però c’è l’ineffabile Milena Gabanelli che, dalle pagine del Corsera, ci suggerisce che – secondo “gli studi scientifici” – se volete campare più a lungo, in salute e col cervello più sveglio, non dovreste proprio andare in pensione ma, piuttosto, continuare a lavorare, lavorare e lavorare, finché non tirate le cuoia. Niente pensione, ma per il vostro bene…

Strano che la Gabanelli, nota per le sue analisi comparative sin dai tempi della sue conduzioni a Report, non abbia in questo caso citato – per dirne una – il sistema previdenziale francese. Un sistema che continua ad avere un’età pensionabile fissata a 62 anni (verrà innalzata gradualmente a 64 anni, per i nati dal 1968 in poi) ed in cui il calcolo della pensione è sostanzialmente retributivo, ovvero, basato sul reddito medio annuo calcolato sulla base dei 25 anni migliori della carriera.

Un sistema che garantisce assegni mensili di gran lunga superiori, dal momento che continua a considerare come parametro, ai fini del calcolo della pensione, il reddito dell’età lavorativa.

Come avveniva in Italia, del resto, prima della Riforma del governo Dini del 1995 (con le successive integrazioni e modificazioni in peggio),  sostenuta all’epoca anche dalla “sinistra” ed avallata da CGIL, CISL e UIL, in cambio degli enti bilaterali in cui co-gestiscono i fondi pensione “chiusi”.

«Noi non faremo la fine dell’Italia», recitava, infatti, uno degli striscioni delle proteste in Francia contro la riforma delle pensioni del 2023, durante una delle tante manifestazioni popolari e degli scioperi diffusi e ad oltranza che ebbero luogo in tutto il paese, in risposta alla proposta di riforma del sistema pensionistico presentata dal governo Borne e sostenuta dal presidente Emmanuel Macron.

E nonostante la riforma “Macron”, il confronto con l’Italia continua ad essere impietoso: da noi, per ora, si va in pensione per vecchiaia a 67 anni già dal 2018. Ma solo perché la pandemia – facendo strage di anziani – ha interrotto la crescita dell’aspettativa di vita e quindi fermato il micidiale meccanismo dell’”adeguamento” dell’età pensionabile. Che però tornerà presto ad aumentare: le previsioni stimano che si raggiungeranno i 70 anni entro il 2040.

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