mercoledì 29 novembre 2023

“The Old Oak” di Ken Loach (al cinema a Trevignano Romano)

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The Old Oak, la vecchia quercia, è il nome di un pub sull’orlo del fallimento, così come fallimentare è il bilancio della vita del suo proprietario, T.J. Ballantyne (Dave Turner), un uomo che si riconosce molti errori e che ormai vive solo con la sua cagnolina. Siamo a Durham, nel nord-est dell’Inghilterra, in una zona terribilmente impoverita dopo la chiusura delle miniere negli anni ’80, al tempo della Thatcher. Anche i pochi clienti fissi del pub, dunque, vivono di vaghi, antichi ricordi di tempi migliori e nuovi rancori verso i profughi siriani che sono stati collocati in città. Città per modo di dire: siamo nei sobborghi più grigi, in minuscole porzioni di case operaie a schiera, simili a loculi. Luoghi così poveri che un bambino inglese può guardare con invidia la bicicletta usata che viene donata a un piccolo rifugiato.

Ken Loach porta la macchina da presa in questi luoghi e tra questa gente. Luoghi reali e persone reali, perché il film nasce proprio dai colloqui con i rifugiati e con la comunità locale, e si nutre non solo dei loro pensieri, ma della loro stessa vita e corporeità. Loach ha dichiarato: «Alla telecamera non si mente: vedi il tessuto della pelle, vedi come guardano il cibo, come si siedono, come si relazionano. Un attore, calato in un’esistenza che non è la sua, suonerebbe falso: potrebbe essere un’ottima performance, ma inevitabilmente artificiosa []. Non devo spiegare a Dave come gestire un pub: ha già gestito un pub. Non devo parlargli della comunità: ne fa parte, abita lì vicino. Sono io, piuttosto, a chiedergli».

Ma tra questi personaggi, pur così reali, uno è anche l’alter-ego del regista. È Yara (Ebla Mari), la giovane rifugiata co-protagonista del film, che vuole diventare una fotografa. L’identificazione di Loach in Yara è evidente fin dall’inizio del film, che presenta in successione una serie di foto in bianco e nero che la ragazza scatta al suo arrivo agli abitanti del paese, mentre sentiamo in sottofondo le loro voci e i commenti ostili. La prima scena, dunque, è vista letteralmente attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica. Yara spiegherà poi a T.J. la sua passione con queste parole: «Nella mia vita ho visto cose terribili, ma se le guardo attraverso la macchina fotografica riesco a rivestirle di speranza». Ed è esattamente questo il senso più profondo di tutto il cinema di Ken Loach: un cinema che documenta la realtà con la precisione di una fotografia, ma nel fatto stesso di riprodurla e comunicarla suscita un legame di solidarietà, e solo grazie a quest’ultima può esserci speranza che le cose cambino. Non si tratta di una speranza vaga ed effimera, ma ha invece basi solide come pietra, come ci mostra una delle scene più belle del film. Qui vediamo T.J. e Yara, per la prima volta fuori dallo squallido quartiere in cui vivono, nella cattedrale normanna che si trova al centro della città. T.J., pur non credendo in Dio, riconosce la sacralità della cattedrale come frutto del lavoro di tanti uomini, e l’architettura gotica si fa immagine vivente dell’altezza e della bellezza che essi possono creare insieme.

Questo è l’ultimo film di Loach; l’ha dichiarato il regista stesso, ormai ottantasettenne, che si congeda ricordandoci, in questa società sempre più frammentaria e individualista, l’enorme forza che possiamo avere se siamo uniti. Una verità così semplice da essere scandalosa, tanto è in contrasto con il mondo in cui viviamo. Mi ha ricordato l’effetto straniante che aveva avuto su di me una considerazione di mio figlio, ancora piccolo, che mi aveva fatto una domanda sulle elezioni: «Ma allora vince sempre la sinistra, perché i poveri sono molti di più dei ricchi!». Già. Proprio questo sembra dirci Ken Loach: non potremmo far sì che la logica più elementare non suoni più come un paradosso e torni invece ad essere la realtà?

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