Belgrado spedisce le truppe al confine mentre Pristina soffia sul nazionalismo. Putin sta a guardare e aspetta che il fratello slavo apra una nuova crisi.
(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it)
Infatti un giorno, nel novembre scorso, il dettaglio maledetto si presenta sotto forma di oggetti banali, le targhe delle automobili e i documenti di identità kosovari; il governo di Pristina esige vengano riconosciuti da Belgrado, campo semantico minato. Ecco tutto comincia così: un dettaglio che cigola, poi si aggiunge dentello dopo dentello, protesta dopo protesta, qualche “dettaglio” più esplosivo: per esempio il fatto che contrariamente agli accordi i kosovari non hanno dato vita alle Comunità municipali previste dagli accordi nella zona Nord dove sono maggioritari i serbi. I sindaci si dimettono per protesta. Si comincia a sentire odore di rivolta e di polvere. E poi ancora una “provocazione”: nelle zone serbe per controllare la rivolta il governo di Pristina spedisce contingenti di polizia speciale kosovara. I serbi che non riconoscono l’indipendenza proclamata nel 2008, legati come sono a Belgrado e al sogno di un ritorno alla madre patria perduta, denunciano “la repressione”.
Segnali dal sapore asprigno, scricchiolii, la pentola della crisi comincia a bollire: ma nessuno ci bada in Europa e oltre Atlantico, c’è l’Ucraina in fiamme, bisogna aiutare gli ucraini a fermare l’invasione putiniana. Intanto tra le montagne kosovare la temperatura tra le due comunità torna a livelli da altoforno: I serbi boicottano le elezioni amministrative di aprile e cercano di impedire agli eletti kosovari, che definiscono illegittimi, di insediarsi con la scorta della polizia nei comuni del boicottaggio. Non hanno torto visto che gli elettori sono stati una minuscola minoranza, 1.500 su 45 mila iscritti al voto. Arrivano i blindati da Pristina, gli scontri per strada si accendono, auto vanno in fumo, lacrimogeni e armi spianate, feriti. Fino agli incidenti di ieri, con gli italiani feriti mentre cercano di interporsi, di fermare i manifestanti.
Intanto la Serbia mette l’esercito in stato di all’erta, spedisce truppe al confine come avviene ogni volta che la tensione cresce, chiede al contingente Nato di proteggere i 120 mila serbi (su una popolazione di quasi due milioni) o altrimenti provvederà da sola. La Serbia tradizionale, storica sponda della Russia nei Balcani, il fratello slavo a cui Putin non vede l’ora di offrire appoggio aprendo un fronte meridionale nella nuova guerra europea e mondiale. Moltiplicare i fronti: una tattica perfetta per il Cremlino che deve ricambiare l’usura che gli occidentali gli impongono con la disinvolta guerra per procura in Ucraina.
È questo che rende l’ennesima crisi kosovara più pericolosa. Perché di solito bastava un richiamo degli occidentali perché i kosovari raffreddassero la tensione. Sanno bene che solo il sostegno della Nato ha reso possibile la indipendenza kosovara e può difenderli di fronte alla voglia di “revanche” di Belgrado che non ha mai accettato la defezione della provincia ribelle. E sono consapevoli che i gruppi radicali della minoranza serba, collegati con ben rodate organizzazioni mafiose, approfittano a loro volta di ogni occasione per scatenare la guerra.
Ma questa volta a muover le fila a Pristina c’è un leader nazionalista, il primo ministro Albib Kurti, che pensa sia il momento giusto per stringete i bulloni sul Nord serbo. Per capire il perché basta leggerne la biografia: due anni nelle galere serbe prima di fondare il suo partito radicale “Autodeterminazione” (scritto con il punto esclamativo) e la promessa di un ricongiungimento con la grande comune patria albanese. Le elezioni le ha vinte con lo slogan della lotta contro la corruzione, una vera economia parallela, e rassicurando gli ingenui occidentali, felicissimi di farsi ingannare, che per il lui i rapporti con la Serbia non sono un problema. La lotta alla corruzione l’ha rapidamente messa nel cassetto. Dedicandosi con metodo invece a riportare all’ordine, pretesto dopo pretesto, il Nord ribelle.
Il rapporto privilegiato di Belgrado con Putin, nemico dell’Occidente, gli ha offerto uno scenario perfetto: presentando il Kosovo come una nuova ucraina democratica e filo occidentale, che i serbi e il loro alleato al Cremlino vorrebbero riassorbire nel sistema delle autocrazie. La vecchia tattica occidentale del sopire e rinviare di fronte al nuovo mondo in guerra non basta più. La polveriera balcanica resta stipata di materiale esplosivo. E ora che fare?
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