Per comprendere la natura della crisi delle istituzioni democratiche che
accompagna la crisi economica esplosa tra il 2007 e il 2008 appare
sempre più urgente definire un quadro analitico di lungo periodo: la
deriva plebiscitaria e carismatica non è che un frutto del trentennio
neoliberista apertosi dalla metà degli anni Settanta.
di Alberto Burgio, da www.costituzionalismo.it
Tra liberismo e fascismo
In estrema sintesi, il senso di questo intervento consiste nell’affermare che è possibile comprendere la crisi della politica, nell’ambito della quale si pongono fenomeni oggi particolarmente vistosi come l’astensionismo di massa, la critica della democrazia rappresentativa e l’invocazione della democrazia diretta, soltanto se la si inquadra in un contesto ampio e di lungo periodo. Ampio, nel senso che questa crisi si collega alla crisi sociale ed economica (in verità anche a una crisi che Gramsci definirebbe «intellettuale e morale»); di lungo periodo, poiché essa chiama in causa una «grande trasformazione» verificatasi nel corso degli ultimi 50-60 anni.
di Alberto Burgio, da www.costituzionalismo.it
Tra liberismo e fascismo
In estrema sintesi, il senso di questo intervento consiste nell’affermare che è possibile comprendere la crisi della politica, nell’ambito della quale si pongono fenomeni oggi particolarmente vistosi come l’astensionismo di massa, la critica della democrazia rappresentativa e l’invocazione della democrazia diretta, soltanto se la si inquadra in un contesto ampio e di lungo periodo. Ampio, nel senso che questa crisi si collega alla crisi sociale ed economica (in verità anche a una crisi che Gramsci definirebbe «intellettuale e morale»); di lungo periodo, poiché essa chiama in causa una «grande trasformazione» verificatasi nel corso degli ultimi 50-60 anni.
Si tratta, insomma, di un fenomeno radicato nella storia, che ha caratteristiche e precedenti storici. Per questo, al fine di intendere il nesso che collega l’odierna crisi della politica alle sue radici economico-sociali (più precisamente: alle conseguenze sociali della controrivoluzione neoliberista che inizia nella seconda metà degli anni Settanta), sembra utile risalire subito a un passaggio storico analogo (a un’altra grande trasformazione), che ha luogo a cavallo tra Otto e Novecento.
Nello schema sotteso all’opera maggiore di Karl Polanyi (The Great Transformation, 1944), l’età classica del liberismo (che trasforma il capitalismo industriale in un sistema sociale[1]) abbraccia poco meno di un secolo.
Comincia nel 1834, con l’abolizione del regolazionismo paternalistico di Speenhamland e l’adozione del Poor Law Reform Act (una normativa che, codificando la «finzione del lavoro come merce», instaura il sistema del cosiddetto mercato autoregolantesi). E regge sino al crollo di Wall Street nel 1929.
In realtà, l’utopia (la distopia) del libero mercato (socialmente distruttiva: causa di disoccupazione e miseria di massa) entrò in crisi già dopo i primi quarant’anni (con la grande depressione del 1873-96), innescando forti tensioni di classe e risposte collettivistiche di stampo protezionistico sul piano sociale e nazionale. Vanno annoverati in questo quadro da una parte la nascita del sindacalismo e il primo affermarsi di elementi di welfare; dall’altra, il nazionalismo, l’interventismo economico, il consolidarsi di mercati monopolistici e il rafforzarsi di tensioni interimperialistiche, tra le cause primarie del primo conflitto mondiale.
I successivi sessant’anni segnano in sostanza la lunga agonia del liberismo, che approda (con il crollo di Wall Street) all’implosione dell’ultima delle sue istituzioni, la base aurea.
II fascismo – questa, com’è noto, la fondamentale tesi polanyiana – fu la conseguenza di questa agonia. Più precisamente, costituì una risposta alle conseguenze del drammatico cedimento del sistema monetario internazionale caratteristico della fase liberale.
Così si comprende, secondo Polanyi, la differenza tra mondo anglosassone e destino europeo. Mentre Stati Uniti e Inghilterra, padroni della moneta, abbandonano per tempo la base aurea (tra il 1931 e il ’33), esautorano il potere politico della finanza[2] e optano per politiche espansionistiche (di welfare) salvaguardando la democrazia; la maggior parte dei paesi europei punta tutto sulla difesa deflazionistica della moneta (in quanto i loro sistemi industriali dipendono dall’acquisto delle materie prime sul mercato estero). Dinanzi all’alternativa tra salvataggio del sistema economico (cioè dell’industria nazionale) e risanamento della moneta (via deflazione) da un lato, e difesa del lavoro (occupazione e redditi) dall’altro, l’affermarsi (a questo punto inevitabile) del primo corno del dilemma implica negli anni Trenta l’adozione di politiche repressive (incentrate sull’adozione di poteri d’emergenza e sulla sospensione delle pubbliche libertà).
Il risultato – scrive Polanyi – è squilibrato e politicamente tragico: «l’ostinazione con la quale, nel corso di un decennio critico, i liberali sostengono l’interventismo autoritario ai fini di una politica deflazionistica si risolve semplicemente in un indebolimento decisivo delle forze democratiche che avrebbero altrimenti potuto allontanare la catastrofe fascista»: «nel corso di vani sforzi deflazionistici i liberi mercati non vengono ricostituiti, anche se i liberi governi sono sacrificati»[3]. In questo senso, nulla fu meno sorprendente o casuale dell’avvento al potere dei fascismi europei, che «rispose alle necessità di una situazione obiettiva», quella di «una società di mercato che si rifiutava di funzionare»[4]. La morale della favola è chiara: avere a lungo rifiutato di governare il processo economico (in omaggio all’ideologia della sua naturale autonomia), avere lasciato briglie sciolte agli «spiriti animali» del capitalismo, distruttori della coesione sociale, costringe alla fine ad approdare all’estremo opposto: non soltanto al governo sociale-politico dell’economia, ma all’adozione di politiche totalitarie, liberticide e criminali.
Non molto diverso nelle conclusioni appare lo schema tracciato una decina di anni prima (da un punto di vista prevalentemente politico) da Harold Laski (Democracy in Crisis, 1933). Laski ritiene che la crisi democratica degli anni Trenta discenda dal «rapido e profondo risentimento» provocato nelle masse popolari dal fatto che la democrazia rappresentativa non ha mantenuto le promesse di riscatto sociale[5]. Ai suoi occhi non è un caso se «la sproporzione che sussiste fra il potere economico (detentore di un «governo invisibile») e il potere politico formale è quasi fantastica»[6]. La crisi democratica discende, a suo giudizio, da una contraddizione fondamentale, alla base della democrazia borghese. Se – scrive – «il problema consiste nel proporsi di impiegare le ricchezze per il bene totale della comunità, il potere di disporne e di dirigerle per l’utile privato si trova ad essere protetto dalle salvaguardie costituzionali»[7].
«Le banche, l’energia, il petrolio, i trasporti, il carbone, tutti i servizi essenziali dai quali dipende il benessere pubblico son tutti interessi acquisiti in mano dei privati», e «il problema diventa ancor più astruso per il fatto che la lunga prosperità aveva convinto l’uomo medio che la costituzione fosse sacrosanta per quanto può esserlo uno strumento simile»[8]. In una battuta, «quando il mercato cessò di espandersi, la classe dominante si rifiutò subito di consentire alle masse di raccogliere le briciole dalla sua tavola»: di qui, secondo Laski, «un senso di disillusione nei riguardi della democrazia, ancor più diffuso, e uno scetticismo verso le istituzioni popolari ancor più grande che in qualsiasi altro periodo della storia»[9]. Di qui anche la delegittimazione delle istituzioni democratiche, la crisi di credibilità dei sistemi rappresentativi e delle grandi organizzazioni politiche e sindacali, e l’invocazione di uomini provvidenziali.
La controrivoluzione neoliberista
Questo schema – in entrambe le varianti ricordate – calza a pennello con la vicenda di quest’ultimo cinquantennio. Tra gli anni Sessanta e Settanta si registrano in tutto l’Occidente capitalistico inediti avanzamenti sul terreno della democrazia sociale e politica, della mobilità sociale, della conquista di sovranità reale da parte della classe lavoratrice. Le Costituzioni post-belliche reagiscono all’esperienza del fascismo predisponendo cornici istituzionali funzionali a questo sviluppo. E l’esigenza della ricostruzione (dei paesi devastati dal conflitto e di un sistema economico mondiale) offre l’opportunità di coinvolgere il lavoro in un compromesso progressivo che non solo propizia l’accumulazione e la distribuzione di ricchezza, ma promuove la partecipazione democratica delle classi subalterne.
Naturalmente questa è una sintesi di parte, che può essere contrastata considerando la stessa storia da una diversa prospettiva. Se dal punto di vista del lavoro e della democrazia il trentennio 1945-75 può essere considerato senz'altro una fase progressiva, nell’ottica del capitale esso fu invece un incubo, caratterizzato da ricorrenti fiammate inflazionistiche e da un’imponente quanto allarmante dinamica redistributiva. Nei paesi sviluppati la ricchezza sociale aumentava (il Pil crebbe in media del 4% l’anno negli Usa, del 5% nei paesi della Comunità economica europea, dell’11% in Giappone), ma contemporaneamente il saggio medio di profitto del capitale investito nelle attività direttamente produttive diminuiva. Giunto (nel 1950) sino al 22%, cominciò a ridursi, assestandosi tra il 7,5% (nel 1970) e il 10% (nel 1975)[10]. I mutamenti che si verificarono nel secondo dopoguerra e che andarono a regime negli anni Sessanta provocarono (o accentuarono) una riduzione del saggio di profitto del capitale privato e furono di fatto considerati da componenti significative delle classi dirigenti occidentali perniciosi e minacciosi per la stabilità dei sistemi economici e sociali.
La posizione destinata ad affermarsi nel successivo trentennio venne teorizzata nel famoso convegno che la Commissione Trilaterale dedicò nel 1975 proprio alla «crisi della democrazia»[11]. In che cosa consisteva tale crisi dal punto di vista dell’establishment capitalistico? In sostanza, in presunti «eccessi» di democrazia (in particolare nell’eccessivo potere negoziale delle organizzazioni sindacali, forti del regime di piena occupazione), causa a loro volta di inflazione (così pretendeva la vulgata, benché l’inflazione derivasse dallo shock petrolifero del 1973) e di una conflittualità sociale ritenuta intollerabile o – come si cominciò a dire allora – «non compatibile».
Che quel convegno sia stato un evento periodizzante, fondativo della nostra attuale condizione, lo dimostra il fatto che a ben guardare vige tuttora la medesima logica e retorica, con la sola differenza che i pretesi «eccessi», di cui si parla da vent’anni a questa parte, riguardano la democrazia economica piuttosto che quella sociale e politica. L’idea di un eccesso di democrazia economica (cioè la convinzione che il lavoro percepisse troppo reddito sotto forma di retribuzioni e di servizi) ha ispirato la costruzione dell’Unione europea (basata sul veto all’impiego redistributivo ed espansivo della finanza pubblica) e oggi costituisce, per così dire, l’implicito concettuale della grande «crisi», che dalla stragrande maggioranza dei politici, dei banchieri e degli opinionisti viene rappresentata come crisi fiscale (dei debiti sovrani) mentre è in realtà soltanto l’effetto recessivo (economicamente e socialmente devastante) di un gigantesco travaso di ricchezza dal lavoro al capitale (e dal pubblico al privato), operato per via finanziaria, monetaria e fiscale attraverso le politiche deflattive della cosiddetta austerità[12].
Ma torniamo agli anni Settanta. Dalla crisi di redditività del capitale industriale e da un livello crescente di conflitto sociale prese avvio la svolta neoliberista, che avrebbe radicalmente trasformato la costituzione materiale dei paesi occidentali a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (in Italia ne furono avvisaglie prima la svolta dell’Eur, con la teorizzazione dei vincoli di compatibilità, l’idea della «responsabilità nazionale» del movimento operaio, e il primato della «governabilità»; poi la marcia dei quarantamila diretta dalla Fiat, che – con buona pace del sindacato – sancì la criminalizzazione del conflitto operaio, dipinto come nemico dell’interesse generale).
Che cos’è accaduto sul piano economico-sociale negli ultimi quarant’anni e in particolare dopo la fine della Guerra fredda, a valle dell’89-91? Il neoliberismo si fonda su tre pilastri: sul piano industriale, la delocalizzazione produttiva (che di fatto, grazie alla rivoluzione informatica e dei trasporti, ha unificato il mercato mondiale del lavoro e offerto al capitale la possibilità di giocare su enormi differenze salariali); sul piano finanziario, la deregolazione (che ha permesso l’impiego speculativo delle risorse in precedenza destinate all’economia produttiva) e la liberalizzazione dei movimenti di capitale (che ha unificato i mercati speculativi riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria degli Stati); sul piano politico-istituzionale, l’accentramento dei poteri negli esecutivi (sia in ambito nazionale che nel contesto continentale europeo), che ha permesso la direzione tecnocratica dei processi in simbiosi con le oligarchie economiche (avviando la crisi storica dello Stato pluriclasse e la tendenziale regressione a forme autoritarie di comando). Un quarto pilastro (del quale in genere non si parla, come se non inerisse al terreno economico) riguarda i rapporti internazionali, affidati a un classico mix tra libera concorrenza economico-finanziaria tra i maggiori gruppi transnazionali e ferreo controllo militare (anche attraverso la guerra) delle aree strategiche sul piano geopolitico da parte delle grandi potenze.
Il risultato complessivo dell’interazione di questi pilastri della «costituzione neoliberista» può essere riassunto (per ciò che attiene ai processi economici, sociali e politici) nella triade: finanziarizzazione dell’economia (principalmente per effetto dell’enorme squilibrio di rendimento dei capitali speculativi rispetto al capitale industriale); privatizzazione (non solo delle maggiori imprese e dei sistemi di welfare ma anche delle istituzioni, della giurisdizione e della sovranità); precarizzazione strutturale del lavoro dipendente (salariato o eterodiretto), con la conseguente caduta dei redditi da lavoro e proletarizzazione dei ceti medi.
Nel giro di trent’anni (a partire dagli anni Ottanta) le condizioni consolidatesi nel trentennio precedente (i «Trenta gloriosi», che Eric Hobsbawm definì «età d’oro» del secolo breve e Paul Krugman designa come «epoca della grande compressione», alludendo alla marcata dinamica redistributiva che vide drasticamente ridursi il reddito dei settori più abbienti: negli Stati Uniti la quota della ricchezza nazionale posseduta dallo 0,1% più ricco della popolazione si dimezzò, passando da oltre il 20% al 10%[13]) sono state cancellate e ribaltate, come dimostrano i dati sulla distribuzione della ricchezza in tutti i paesi occidentali.
Ne bastino qui pochi inequivocabili. Nei quindici paesi Ocse più ricchi, nel trentennio liberista (1976-2006) la quota salari (l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil) è passata dal 68 al 58%. Negli Stati Uniti (dove i salari reali sono fermi dai primi anni Settanta a fronte di un aumento della produttività pari all’83%, e dove la disoccupazione effettiva coinvolge oltre il 15% della forza-lavoro) il reddito del 10% più ricco della popolazione ha raggiunto il 50% del reddito nazionale (tornando ai livelli precedenti la seconda guerra mondiale); in questi anni di crisi, sempre negli Stati Uniti, oltre il 90% dell’incremento della ricchezza va al 10% più ricco della popolazione (mentre il 60% più povero continua a impoverirsi). Stesse considerazioni valgono per l’Italia, dove i salari reali, da tempo tra i più bassi in Europa, ristagnano da una quindicina d’anni e la quota salari è crollata al 53% (il che, in valori assoluti, equivale a una perdita di circa 240 miliardi di euro nel giro di trent’anni)[14].
Si tratta di un colossale aumento delle disuguaglianze, che non compromette soltanto l’equità e la coesione sociale, ma (come ha mostrato da ultimo Joseph Stiglitz) impedisce anche la funzionalità del sistema economico e ne pregiudica la capacità di riprodursi. In questo senso l’epoca del neoliberismo ricalca quella del secolo liberista (1834-1929) ricostruito da Polanyi.
Democrazia diretta e investimento carismatico
Ma le analogie riguardano anche le conseguenze politiche delle trasformazioni economico-sociali, e qui veniamo direttamente all’odierna crisi della politica e della democrazia rappresentativa, che con ogni probabilità discende, almeno in parte, da processi analoghi a quelli che nel Novecento spinsero gran parte dell’Europa continentale nelle braccia del fascismo (ma in qualche misura la sindrome carismatica coinvolse anche gli Stati Uniti di Roosevelt).
Come sappiamo, un secolo fa la crisi capitalistica sfociò appunto nell’affermazione di regimi monocratici, dispotici o, come si è ritenuto di definirli, «totalitari». A prima vista si trattò quindi di una crisi delle istituzioni rappresentative del tutto diversa dall’attuale o addirittura opposta, in quanto oggi la critica «antipolitica» della rappresentanza si vuole ispirata dalla radicale sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche o – in una versione meno estremistica – dalla rivendicazione di forme di democrazia diretta. In realtà vi sono meno differenze di quanto non sembri, nel senso che tanto il rifiuto antipolitico delle istituzioni che oggi si esprime nella massiccia diserzione delle urne, quanto l’estremismo anarcosindacalistico e la deriva plebiscitaria alla base di quello che non per caso Emil Lederer chiamò «Stato delle masse»[15] possono ben essere ricondotti a una domanda iperdemocratica di partecipazione diretta al comando politico.
Per quanto paradossale possa apparire (in effetti è un paradosso, ma anche un dato di fatto), la delega totale al capo carismatico e l’esercizio della sovranità in regimi di democrazia diretta appaiono antitetici, ma sono in realtà gemelli siamesi. In apparenza la democrazia diretta consiste nella riappropriazione del potere sovrano da parte della collettività. Ma – quali che siano i riferimenti storici che si vogliono invocare – non solo non vi è alcun esempio di esercizio della sovranità da parte di un’intera popolazione (nemmeno nell’Atene del quarto secolo, paradigma di democrazia diretta: l’ekklésia era composta dai soli cittadini – maschi adulti liberi – e contribuiva all’autogoverno insieme a istituzioni rappresentative – prima tra tutte la boulé – incaricate di correggere gli eccessi dell’assemblearismo e forse anche di “liberare” la città da un eccesso di politica); non solo è noto che quanto più si svaluta la rappresentanza, tanto più il conflitto politico si riduce a negoziato diretto tra portatori di interessi costituiti (a detrimento dei ceti per i quali il numero costituisce la fondamentale risorsa politica)[16]; non solo la retorica antirappresentativa che, a partire dal Sessantotto, ha preteso di costituire l’espressione più radicale della critica è stata sussunta in pieno dal «nuovo spirito del capitalismo postfordista», che se ne è avvalso per presentarsi «come una rivolta libertaria contro lo Stato e contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo corporativo e del socialismo reale»[17]; ma è soprattutto evidente l’incoercibile scivolamento della pretesa partecipazione diretta alla sovranità verso l’affidamento al capo.
In altre parole, la critica radicale della rappresentanza non muove verso l’obiettivo, di per sé condivisibile, dell’integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa e deliberativa. Essa in realtà cela un cuore nero (schmittiano) nella misura in cui offre un argomento tra i più efficaci ai governanti desiderosi di «prendere in via definitiva il largo» dai governati[18]. Perché questi non se ne accorgono? Perché, in altri termini, l’affidamento al capo non è vissuto come espropriazione e quindi come antitesi rispetto alla democrazia diretta? Per il fatto che, come notò Freud in tempi non sospetti (1921) sulla scia di Le Bon e McDougall, con il capo ci si identifica (sulla scorta di dinamiche narcisistiche), ragion per cui le sue decisioni vengono vissute (almeno dapprincipio, finché persiste l’infatuazione carismatica) come fossero le proprie, i suoi gesti vengono ammirati come fossero i propri, il suo potere accolto e subito nell’illusione di esercitarlo in proprio.
Da quando Freud svolse queste classiche analisi è trascorso quasi un secolo, ma non si saprebbe certo sostenere che i pericoli che egli segnala siano venuti meno. Gli attuali sistemi di comunicazione sembrano piuttosto accrescerli, nella misura in cui tendono a spettacolarizzare ogni narrazione a scapito del vaglio critico. L’informazione di massa è così strutturata da aumentare l’impatto simbolico, favorendo la trasfigurazione dei personaggi posti sulla scena mediatica e alimentando la relazione narcisistica (l’identificazione inconsapevole tra le figure pubbliche e l’«ideale dell’Io» proprio degli spettatori). Dimodoché effettivamente informazione e accecamento ideologico sembrano di norma correre di pari passo.
Democrazia diretta ed euforia plebiscitaria mobilitano passioni, soddisfano pulsioni, forniscono gratificazioni che la relazione politica disciplinata nel quadro della democrazia rappresentativa non è in grado di offrire. La rappresentanza vive nella mediazione, cioè nella distanza e nell’alterità. Come sottolineava John Stuart Mill, consente (almeno in linea di principio) il controllo del potere[19] e favorisce la critica delle decisioni assunte da parlamento e governo, ma per ciò stesso mantiene bassa la temperatura nel sistema delle relazioni politiche. Il rappresentante non è il rappresentato, che non dimentica nemmeno per un momento questa alterità, in base alla quale avanza rivendicazioni ed elabora critiche.
Ma quando le prestazioni della politica appaiono troppo insoddisfacenti (o quando le strutture valoriali, simboliche e organizzative dell’identità collettiva – a cominciare dai partiti politici – diventano troppo fragili e indistinte per alimentare in forme virtuose la relazione di simpatia e comunicazione ideologica in cui il processo rappresentativo si sostanzia[20]), una reazione spontanea tende a travolgere non soltanto l’insieme dei rappresentanti, ma il sistema stesso della rappresentanza. La temperatura si alza. Il corpo sociale entra in fibrillazione, febbricita, rigetta la mediazione ed esige di entrare in gioco in prima persona. Senonché, la «ribellione delle grandi masse» può condurre a molti esiti (a cominciare dall’insorgenza rivoluzionaria) ma non certo al loro protagonismo immediato in un quadro istituzionale, impossibile anche tecnicamente (com’era chiaro allo stesso Rousseau) se non nella forma paradossale, e di norma passiva, dell’assenza (la diserzione massiccia dalle urne). La rivendicazione iperdemocratica – per dirla con Ortega – si risolve di norma nel loro euforico, dionisiaco identificarsi nel protagonismo del capo. Che le seduce promettendo grandi risultati e, non di rado, totale impunità, e le soggioga, persuadendole di incarnarne la soggettività.
Naturalmente si tratta di una suggestione. Come l’affidamento al capo implica la delega totale, quindi non il protagonismo della massa ma la sua espropriazione, così l’irruzione del capo non costituisce l’apoteosi della democrazia ma la sua negazione radicale. La massa si illude di essere finalmente in sella, avendo cacciato gli usurpatori che pretendevano di rappresentarla. Si ritrova in realtà del tutto spossessata e costretta al ruolo di ancella adorante. Ma anche in questo caso il fatto che l’esperienza storica abbia comportato dolori e lutti non sembra preservarci dal rischio di repliche tragiche o grottesche.
Eclissi e responsabilità della sinistra
Qui veniamo a un ultimo snodo del ragionamento. Perché l’esperienza non basta, e perché dovrebbe bastare? Tutto o molto dipende dall’idea che ci si è fatta di come si costituisce e funziona la «ragione pubblica» o l’«intelletto generale».
Per chi non si accontenta di schemi spontaneistici e problematizza il processo di sviluppo della coscienza collettiva, la politica (intesa come azione di soggetti organizzati, variamente volta a partecipare all’esercizio della sovranità) ha, tra gli altri, il compito di diffondere consapevolezza e di produrre soggettività attraverso la costruzione partecipata del discorso analitico e critico. In fondo è questo uno dei compiti essenziali che la Costituzione repubblicana assegna ai partiti politici, ed è anche la ragione per cui Kelsen (come già Weber) ritiene che non possa esservi democrazia senza partiti. Di certo è il cuore della teoria gramsciana del moderno principe, organismo radicalmente democratico non solo perché vincolato al rispetto di clausole partecipative nella costruzione dei gruppi dirigenti e nella determinazione degli obiettivi del conflitto sociale e politico, ma anche (in primo luogo) perché finalizzato a quello che i Quaderni chiamano «progresso intellettuale di massa»[21] (quel progresso che Gramsci è convinto di avere contribuito a realizzare con particolare vigore nel corso dell’esperienza ordinovista).
Posta la questione in questi termini, si può sostenere con buone ragioni che i maggiori partiti politici abbiano effettivamente assolto il compito dell’alfabetizzazione civile e politica di massa nel corso del primo trentennio postbellico (non per caso, il periodo coincidente con l’età d’oro della democrazia europea). Per quanto riguarda l’Italia, ci si può riferire ai grandi partiti al plurale, attribuendo questo merito storico anche alla Democrazia cristiana in quanto partito popolare, ma è indubbio che esso vada ascritto in particolare al Partito comunista italiano, quale che sia il giudizio retrospettivo sulle scelte politiche di fondo da esso assunte al tempo della cosiddetta prima Repubblica.
Fu il Pci, per ragioni per dir così ontologiche, ad assumersi l’onere principale di “civilizzare” le classi subalterne, di fornire loro strumenti di lettura della realtà, di decifrazione critica, quindi di autocomprensione e di oggettivazione della propria esperienza e condizione. L’apparato del partito, di cui si sarebbe poi lamentata la pesantezza, obbediva in buona misura a questa esigenza, la quale informava di sé un articolato e radicato complesso di strutture e attività, dalla stampa d’informazione alle scuole di partito, dall’organizzazione dell’intellettualità organica nei diversi settori della formazione pubblica alla produzione di saperi, dalla promozione di iniziative culturali alla creazione di istituzioni, alla direzione della cosiddetta «battaglia delle idee».
Tutto questo implode a partire dall’89-91, dopo essere entrato gradualmente in crisi già nel corso degli anni Settanta. La crisi coinvolge, beninteso, tutti i partiti della cosiddetta prima Repubblica, che – com’è stato osservato ancora di recente da Gianni Ferrara – non soltanto si «degradano» in ragione del loro convertirsi «alla funzione servente della cosiddetta “governabilità”», ma, per ciò stesso, finiscono anche con l’abiurare i propri compiti costitutivi, primi fra tutti l’estrazione di «domande sociali coordinate in programmi credibili» e il loro collegamento a un «qualche progetto almeno dignitoso di società e di Stato»[22]. Ma la regressione investe con particolare violenza il Pci – non fosse che per la sua specifica vocazione a promuovere l’emancipazione anche culturale e politica delle classi subalterne.
In breve (mai come in questo caso vale l’osservazione che i tempi della costruzione sono lenti e quelli della distruzione fulminei) si è smantellato un potente complesso di casematte e si è sradicato il discorso che esso aveva contribuito a consolidare e a trasformare in senso comune. Quando si riflette sul ruolo del gruppo dirigente post-berlingueriano (ma forse molte responsabilità gravano sullo stesso Berlinguer, che quel gruppo dirigente aveva selezionato e promosso nel corso della prima lunga fase della sua segreteria), troppo raramente si considera questo elemento specifico: l’avere non soltanto assunto e interiorizzato le categorie dell’avversario (legittimando la trasformazione neoliberista come neutrale modernizzazione e per ciò stesso razionalizzando le sperequazioni come effetti collaterali e transitori dello sviluppo), ma l’avere quindi anche disarmato culturalmente (oltre che scomposto politicamente) un blocco storico di forze sociali, deprivate di criteri intellettuali e morali di orientamento e giudizio, sradicate da quadri di riferimento liquidati come ideologici. Ragion per cui non c’è ormai evidenza che tenga – pure a fronte di una crescente iniquità del modello sociale esistente – perché possa essere ingaggiata una coerente battaglia culturale e politica contro la primazia del capitale privato nel tentativo di contrastare efficacemente le tesi della destra, di per sé insostenibili.
È la grande questione della crisi della politicizzazione di massa, che invece di essere riconosciuta sì come un portato dei tempi e dei nuovi modelli di vita, ma anche come un problema (dunque come un compito che imponeva una ricerca di nuovi strumenti di direzione della politica emancipativa), è stata invece subita e avallata, spesso senza nemmeno accorgersi che dalla generale disgregazione sociale, politica e culturale derivava la passività delle masse e la loro subalternità all’egemonia «intellettuale e morale» del capitale e della destra[23].
È stato scritto di recente a questo riguardo che in tutta Europa la maggior parte delle sinistre ha rassegnato le «dimissioni dalla propria funzione critica»[24] e che «gli avvocati» che rappresentavano la parte più vulnerabile e meno protetta della società non solo «si sono mostrati incapaci di giocare d’anticipo» rispetto all’offensiva neoliberista, ma hanno altresì deciso di smantellare gli «impegnativi apparati di mobilitazione» (i grandi partiti socialisti e comunisti) al fine di rafforzare «la divisione del lavoro tra rappresentanti e rappresentati» e di riservare a sé (gli addetti ai lavori della mediazione tra interessi) «il monopolio della politica» (lasciando al popolo «la cura degli affari e dei piaceri privati»)[25]. Pensiamo, per fare solo un esempio, al New Labour di Blair e Brown, la cui azione di governo – recisi i legami col mondo del lavoro e le Trade Unions e confluita verso il cosiddetto «centro riformista» (un effetto classico del nuovo bipolarismo politico, che spinge alla ricerca del cosiddetto voto fluttuante post-ideologico) – si è dichiaratamente ispirata al modello thatcheriano. Rimodellando il laburismo in base ai cardini economico-sociali del «turbocapitalismo»[26] e aderendo senza scarti all’assetto politico-istituzionale «post-democratico», conseguenza e al tempo stesso causa dell’indebolimento delle forme tradizionali di espressione della sovranità popolare[27].
Ad ogni modo, vero o falso che sia questo severo resoconto, sta di fatto che oggi in Italia ci ritroviamo in un frangente della vita del paese non soltanto avvilente ma anche assai rischioso. Dinanzi a chi non opti per il diniego della realtà (come sembra fare talvolta un ceto politico ossessionato dagli imperativi dell’autoconservazione e forse anche per questo intenzionato a varare ambiziose riforme costituzionali, la cui portata urterebbe con una fragile legittimazione) si stende uno scenario allarmante, l’immagine di un paese allo sbando, che sa di non potersi fermare ma ignora la direzione da intraprendere. In termini di classe, il discorso pubblico è tuttora – ovviamente – monopolizzato dalle forze dominanti, nonostante i disastri provocati dal liberismo. E indiscutibilmente pesano, in questo scenario, anche le gravi responsabilità di un’informazione che pressoché unanimemente rappresenta la crisi sotto un’angolatura che ne impedisce qualsiasi lettura critica.
Anche a questo riguardo il caso italiano sembra paradigmatico. Se in tutto l’Occidente la crisi morde con particolare violenza nelle condizioni di vita e di lavoro dei settori sociali subalterni (il mondo del lavoro salariato o eterodiretto; il precariato; i pensionati; i giovani in cerca di prima occupazione e l’esercito di disoccupati e inoccupati); in Italia sussiste una specifica anomalia, che conferisce alla crisi un segno di classe spiccatamente regressivo. Siamo il paese con tre record davvero poco invidiabili: la maggiore pressione fiscale sui redditi da lavoro (pari ormai al 54%); il più alto tasso di evasione ed elusione fiscale (al quale fa riscontro un’economia sommersa capace di produrre – secondo stime recenti – oltre 270 miliardi di euro l’anno, pari al 17,4% del Pil); e – com’è abbondantemente risaputo – il debito pubblico proporzionalmente più elevato (circa il 130% del Pil) non solo dell’eurozona, ma di tutta l’Ue. Ma siamo anche, come si diceva, il paese con il debito privato più contenuto, il paese che ha privatizzato di più nel corso degli ultimi vent’anni e quello nel quale l’impresa privata, soprattutto media e piccola (che tuttavia rappresenta poco meno del 90% del tessuto produttivo nazionale), investe meno in ricerca e innovazione tecnologica.
Posti in un quadro unitario e letti alla luce delle politiche di «risanamento e rigore» adottate dai governi susseguitisi alla guida del paese nell’ultimo quinquennio, questi dati rivelerebbero la coerenza e l’efficienza della dinamica critica, il suo operare come un possente dispositivo di redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La crisi della finanza pubblica consegue in larga parte alla gigantesca sottrazione di risorse private dovute alla fiscalità generale; nella misura in cui ad essa si fa fronte colpendo sempre più pesantemente i redditi da lavoro (per un verso tramite riduzioni della spesa pubblica e della base occupata, per l’altro con l’aumento della pressione fiscale) e premiando la rendita (attraverso la vendita a interesse del debito pubblico), il meccanismo della crisi non solo non viene minimamente contrastato (con ciò compremettendo le prospettive di sviluppo del paese), ma viene anzi alimentato quale fattore di ristrutturazione oligopolistica dell’economia nazionale (e, a cascata, di regressione oligarchica dell’assetto dei poteri di controllo sociale e di governo politico).
Mai, tuttavia, l’informazione di massa offre un quadro organico di tale stato di cose, che ne rappresenti la portata sistemica, e consenta di coglierne l’efficiente coerenza nel segno della tradizionale indifferenza di buona parte della borghesia italiana (si pensi, ancora una volta, alle severe diagnosi gramsciane) rispetto agli interessi generali del paese. E se anche, per un verso, la presa egemonica delle narrazioni correnti viene gradualmente meno (il segno antisociale del modello post-reaganiano è ogni giorno più evidente agli occhi di chi non ha lavoro, versa in povertà e non vede vie d’uscita dall’emarginazione); se anche in settori sociali sempre più vasti si diffonde un’ostile diffidenza nei confronti dei mezzi d’informazione e della stessa politica, considerata come un’arma puntata sul più debole – non per questo sorge e si rafforza una coscienza critica di massa. Per il fatto stesso di avere abdicato alla direzione politica di un processo critico dopo averne smantellato i fondamenti ideologici, non si è ora in condizione di impedire che il disagio si riversi nel risentimento o nella depressione, che il malessere, sapientemente stimolato (colgono nel segno le analisi che riconducono l’exploit di Grillo alla martellante campagna anti-casta del «Corriere della sera») confluisca nella protesta qualunquistica e plebea. Peggio: non si è nemmeno in grado di decifrare le ragioni obiettive della protesta e di ricondurle al quadro storico di lungo che, solo, permetterebbe di comprenderle e forse di prevederne e contrastarne gli effetti.
Se le cose stanno così, è allora impossibile concludere queste nostre considerazioni con una nota di ottimismo, della quale, pure, avvertiamo il bisogno. E questo, si badi, non già perché ci si trovi di fronte a un capitalismo trionfante, che impone al lavoro la dura legge dei rapporti di forza in termini di sfruttamento, di riduzione dei salari e di intensificazione della pressione coercitiva. Ma, paradossalmente, proprio per il contrario: perché siamo nel mezzo di una crisi sistemica gravissima (Gramsci direbbe «organica») che genera contraddizioni estreme (da un lato gigantesche masse di capitale prive di sbocchi, dall’altra masse immense di lavoratori senza occupazione né reddito, pur a fronte di enormi e crescenti bisogni sociali insoddisfatti); e perché nuovamente, come un secolo fa, l’istanza nichilistica del dominio preclude ogni via d’uscita verso soluzioni razionali, che implicherebbero trasformazioni radicali del sistema. È vero che la storia non si ripete mai uguale a se stessa, ma è altresì ragionevole ritenere che, in costanza di contesti strutturali, i processi presentino analogie e rischino di replicare dinamiche essenziali.
NOTE
[1] La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974, p. 107.
[2] «Che il protezionismo sociale non risultasse in questo caso un punto morto, era dovuto al fatto che gli Stati Uniti abbandonarono l’oro per tempo. Infatti anche se i vantaggi tecnici di questa mossa erano esili […], il risultato […] fu lo spodestamento politico di Wall Street. Il mercato finanziario governa per mezzo del panico. L’eclissi di Wall Street negli anni trenta salvò gli Stati Uniti da una catastrofe di tipo continentale» (ivi, p. 289).
[3] Ivi, p. 294.
[4] Ivi, pp. 297, 300.
[5] Democrazia in crisi, Laterza, Bari 1935, p. 18.
[6] Ivi, p. 35.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, pp. 35-6.
[9] Ivi, pp. 54, 36.
[10] Cfr. Guglielmo Carchedi, Behind the Crisis. Marx's Dialectics of Value and Knowledge, Brill, Leiden 2011, pp. 85 ss.; Id., Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell’euro, in http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1830-guglielmo-carchedi-dalla-crisi-di-plusv alore-alla-crisi-delleuro.html. Dati in sostanza concordanti sull’andamento negativo del saggio di profitto lordo nell’economia di Stati Uniti, Giappone, Francia, Regno Unito, Germania e Italia, fornisce, in relazione agli ultimi cinque decenni, Stefano Perri, Back to the Future? The Tendency of the (Maximum) Rate of Profit to Fall. Empirical Evidence and Theory, in Emiliano Brancaccio e Giuseppe Fontana (a cura di), The Global Economic Crisis. New Perspectives on the Critique of Economic Theory and Policy, Routledge, 2011, pp. 164-183.
[11] Alberto Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma 2009, pp. 56-7.
[12] La storia del debito pubblico italiano – tra i più alti in Europa – è in proposito paradigmatica. La sua crescita abnorme non consegue solo all’uso della finanza pubblica per salvare/rifinanziare imprese private (in part. le banche) in questi anni di crisi né, tanto meno, a un presunto eccesso di spesa pubblica. È in primo luogo figlia dell’origine del debito stesso (sulla quale si veda ora L’autonomia della politica monetaria. Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo, con scritti di Andreatta, Ciampi, Draghi, Monti e altri, il Mulino, Bologna 2012). A partire dagli anni Ottanta il fisco è stato impiegato per favorire il capitale privato, esentandolo dall’obbligo di contribuire in misura adeguata alla spesa pubblica (il che ne avrebbe di fatto decretato la progressiva socializzazione) e trasformandolo in prestatore (garantendone cioè sovranità e vincoli proprietari). Il fatto che il debito pubblico italiano si sia più che raddoppiato tra il 1981 e il ’95 (passando dal 58 al 121% del Pil) deriva precisamente dalla decisione (di governi e Banca d’Italia) di ricorrere al meccanismo dell’indebitamento per finanziare la spesa e, al tempo stesso, remunerare il capitale privato: l’enorme crescita del debito pubblico è effetto dell’esplosione della spesa per interessi, che ovviamente, con questo sistema, cresce su se stessa (il Tesoro calcola per es. che tra il 2011 e il 2015 essa aumenterà di oltre 27 miliardi di euro, superando la soglia psicologica dei 100 miliardi). In trent’anni questo perverso meccanismo redistributivo ha spostato dal pubblico al privato (per il servizio del debito pubblico) oltre 2100 miliardi di euro, una cifra che di per sé supera l’intero ammontare del debito. Il che spiega perché in Italia, a fronte di uno Stato super-indebitato, si registri il più basso tasso di indebitamento privato (il 42% del Pil, contro il 51% della Francia, il 63% della Germania e il 103% del Regno Unito).
[13] Giuseppe Berta, L’eclisse della socialdemocrazia, il Mulino, Bologna 2009, p. 42.
[14] Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 49, 104-5, 108; Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti, ombrecorte, Verona 2013.
[15] The State of the Masses. The Threat of the Classless Society, Norton, New York 1940.
[16] Alfio Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 309-10.
[17] Laura Bazzicalupo, La rappresentanza politica dopo la sua decostruzione, in Marco Baldassari – Diego Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale, ombrecorte, Verona 2012, p. 104.
[18] Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, cit., p. 318.
[19] Considerations on Representative Government (1861); trad. it., Considerazioni sul governo rappresentativo, Bompiani, Milano 1946, pp. 82 ss.
[20] Nadia Urbinati, La democrazia rappresentativa e i suoi critici, in Carlo Altini (a cura di), Democrazia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, il Mulino, Bologna 2011, pp. 252-3.
[21] Quaderni del carcere. Ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1385 (quad. 11, § 12).
[22] La crisi del neoliberismo e della governabilità coatta, «Costituzionalismo.it», I, 2013.
[23] Michele Ciliberto, La democrazia dispotica, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 140-3.
[24] Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., p. 57.
[25] Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, cit., pp. 342-4.
[26] Berta, L’eclisse della socialdemocrazia, cit., pp. 24, 92.
[27] Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
(30 settembre 2013)
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