Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di
curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata,
sia il crescente autoritarismo di governi eterodiretti dalla famigerata
troika di Bruxelles, esiste una sola strada: la riforma dei trattati
Ue.
la Repubblica di Luciano Gallino
Poco
prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha
pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni
di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al
rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al
precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino
tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci
porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza
mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio
potrebbe essere anche peggio.
Sui guasti pan-europei delle
politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome
della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I
disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella
sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti
dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a
cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa,
sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati
brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici – da noi ne sanno
qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro – insieme con i fondi per
l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e
il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni
della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato
ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà
di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai
residenti.
Codesti risultati delle politiche di austerità,
imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è
necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul
sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di
senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha
preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da
Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi
per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel
2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione
o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con
cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in
un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J.
Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella
retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La
quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando
permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina
politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”;
“sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti
meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero
scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han
messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello
Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un
decimo di punto percentuale.
Allo scopo di contrastare sia le
politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle
stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con
cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma
brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un
quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate
dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo
dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue,
ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella
versione consolidata che comprende le norme di funzionamento
dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo
dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe
all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato
Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.
Tra le revisioni
principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate
anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che
avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che
sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al
Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri
atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da
nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe
includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro
direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca
centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre
accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue
azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha
ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di
promuovere la piena occupazione.
Dovrebbe altresì prevedere, la
revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema
finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè
l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra
pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà
di creare denaro dal nulla mediante il debito; laddove nella versione
attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni
aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti
dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale
indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il
Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono
palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe
essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione
democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai
massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza
tale partecipazione la democrazia non è niente.
So bene che a
questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante
la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e
specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe
cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e
capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è
quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto
che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo
dell’un per cento.
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