Pubblichiamo il contributo di Alisa Del Re all’ultimo numero di “Viewpoint Magazine” sull’inchiesta operaia, appena pubblicato.
Uso politico dell’inchiesta operaia.
La proposta originaria di una “inchiesta
statistica sulla situazione delle classi lavoratrici” fu formulata per
la prima volta da Marx nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dell'associazione internazionale dei lavoratori,
nel 1867, poi ripresa nel 1880. L'intento era di portare alla luce quei
"fatti e misfatti", relativi all'organizzazione del lavoro e al
processo di produzione e di vita, che il potere borghese deliberatamente
occulta o quanto meno mistifica.
Nel 1964 Raniero Panzieri[1] interviene
sul tema “Scopi politici dell’inchiesta”[2] presentandolo in questi
termini: “Noi abbiamo degli scopi strumentali, evidentemente molto
importanti, che sono rappresentati dal fatto che l'inchiesta è un metodo
corretto, efficace e politicamente fecondo per prendere contatto con
gli operai singoli e gruppi di operai. Questo è uno scopo molto
importante: non solo non c'è uno scarto, un divario e una contraddizione
tra l'inchiesta e questo lavoro di costruzione politica, ma l'inchiesta
appare come un aspetto fondamentale di questo lavoro di costruzione
politica. Inoltre il lavoro a cui l'inchiesta ci costringerà, cioè un
lavoro di discussione anche teorica tra i compagni, con gli operai ecc.,
è un lavoro di formazione politica molto approfondita e quindi
l'inchiesta è uno strumento ottimo per procedere a questo lavoro
politico”.
Le inchieste operaie teorizzate e praticate dai “Quaderni Rossi”
all’inizio degli anni ’60 articolano un’analisi delle specificità del
“neo-capitalismo” – il capitalismo fordista – alla proposta di una linea
politica incentrata sull’antagonismo irriducibile della classe operaia
della grande industria. Tale articolazione rappresenta una rottura con
le ideologie dominanti della sinistra politica e sindacale dell’epoca:
il reinvestimento politico delle condizioni immediate della vita di
fabbrica rompe con la concentrazione esclusiva sulla sfera autonoma
delle istanze politiche e ideologiche; l’affermazione di una
conflittualità immanente alla vita di fabbrica rompe con i miti
sociologici di un progresso tecnico e sociale che avrebbe riassorbito
ogni contraddizione nell’ordine totale della “società opulenta”.
L’inchiesta militante, condotta fuori
dai luoghi di produzione, tenderà a sciogliere, nel corso degli anni
’70, quell’unità di conoscenza e opposizione sulla quale si era basato
il metodo insieme analitico e politico dell’operaismo. D’altro canto,
l’attivismo dei movimenti e dei gruppi, attraverso l’investimento del
corpo e la politicizzazione della vita quotidiana, sperimenta nelle
lotte quel dislocamento del conflitto nella sfera della circolazione del
quale proprio Tronti e Negri forniscono la teoria, con la divisione tra
forza-lavoro (oggetto del marxismo come scienza) e classe operaia
(soggetto del marxismo come rivoluzione) e con la crisi della legge del
valore-lavoro
Nel passaggio dall’operaismo militante ai gruppi femministi negli anni ’70 emerge in Italia tra le femministe radicali di formazione marxista
l’analisi legata alla struttura della giornata lavorativa e alla
dimensione di autonomia all'interno della vita complessiva delle donne.
Nella pratica politica veniva articolato un discorso apparentemente
riformista sui servizi sociali e una pratica di forme concrete di
“liberazione dal lavoro domestico”. La base di partenza non era
ideologica, ma, mutuata dalla pratica operaia, si articolava in lotte
connesse a bisogni immediati di liberazione. La traslazione dalle lotte
di fabbrica per la salute, per gli aumenti uguali per tutti, per i
trasporti gratis si articolano nella richiesta di servizi sociali e di
una ridefinizione del welfare era legata al riconoscimento di problemi
materiali concreti e immediati, costitutivi del lavoro di riproduzione
della forza lavoro[3].
Partendo dalla definizione marxiana
della forza lavoro: “merce speciale che è contenuta soltanto nella carne
e nel sangue dell’uomo”[4] il femminismo marxista definisce “lavoro”
anche quell’attività gratuita di riproduzione degli individui
storicamente attribuita alle donne (ai ruoli femminili)[5].
Il lavoro domestico privato gratuito è
definito come socialmente necessario, produttivo, in grado di costituire
per il capitale un plusvalore indiretto, anche se sembra produrre solo
valore d’uso. Se infatti la produzione di plusvalore avviene con
l'acquisto di forza-lavoro da parte dei proprietari dei mezzi di
produzione, dunque attraverso il lavoro salariato, la determinazione del
plusvalore non è data solo da quella forza lavoro che viene portata
direttamente sul mercato. Il plusvalore viene determinato anche dal
lavoro non pagato di riproduzione degli individui. Il lavoratore
salariato esonerato dal lavoro domestico porta sul mercato la sua
forza-lavoro riprodotta e trasporta così, attraverso il processo
lavorativo, valore e plusvalore nelle merci, le quali sul mercato si
convertono in denaro.
Il lavoro di riproduzione all’interno
della famiglia, producendo beni di consumo e non beni di scambio per il
mercato, che non si trasformano in denaro, non appare come produttore di
valore. Lo stesso vale per la produzione di sussistenza: questa non
entra nel mercato come valore di scambio. Ma chi è esonerato dal lavoro
di riproduzione, di sé stesso e di altri, è più produttivo e più
efficiente nel processo di produzione sociale.
Inoltre se il salario misurasse
effettivamente quanto è necessario per riprodurre la forza-lavoro, il
lavoratore salariato dovrebbe ricevere un salario equivalente al costo
di mercato di tutti i lavori e servizi che sono svolti da chi riproduce
la forza lavoro (nella maggior parte dei casi, le donne).
Ormai sono generalizzati gli studi sul
valore ipotetico del lavoro gratuito di riproduzione rispetto al
prodotto interno lordo: Boeri, Burda e Kramarz [6]hanno costatato – ad
esempio - che questo valore per l’Italia è di circa un terzo del Pil.
Inoltre, un’altra rilevazione da fare è che produzione di merci e
riproduzione delle persone appartengono a due ambiti interrelati. La
cura sembra una cosa separata, estranea al mondo della produzione; ma,
particolarmente al giorno d’oggi, in cui la produzione capitalista ha
invaso la vita, e quindi la riproduzione, non è possibile tenere
separati i due settori. Essi sono connessi, anche se storicamente
definiti, e in essi il capitale gerarchizza e organizza le attività
umane al fine della propria riproduzione. E il legame si sviluppa in due
sensi: il primo, più chiaro è quello già descritto della produzione
diretta di valore, il secondo è quello in cui le qualità della cura come
produttrice di valore entrano nel lavoro salariato di produzione di
merci.
Finora ho usato categorie marxiane.
Adelino Zanini ci esorta a non chiedere a Marx di dire cose che non ha
detto, o che non poteva dire dati i rapporti sociali nel periodo storico
in cui lui scrive[7]. Quindi uso le categorie marxiane, tentando di
utilizzarle per l’oggi e probabilmente anche di forzarle per capire
meglio la realtà che ci circonda. Io vedo nel rapporto
produzione-riproduzione tre fasi successive alla fase di sfruttamento
intensivo della forza-lavoro descritto da Marx con l’estrazione del
plusvalore assoluto. Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX in
occidente la grande fabbrica è consustanziale all’apparire dell’operaio
specializzato come figura centrale. La riproduzione di questo operaio si
pensa che possa essere garantita, conservando il valore della merce FL,
attraverso un controllo delle sue condizioni di vita. Si pensi a Ford e
all’uso dei cinque dollari al giorno, cioè di una paga molto alta per
l’operaio sposato, con figli, che non si ubriacava, ecc., quindi con un
controllo della qualità della sua riproduzione. Oppure si pensi in
Italia al Lanificio Rossi agli inizi del novecento, con il padrone che
faceva costruire le case per gli operai attorno alla fabbrica, quindi
controllava direttamente dalla fabbrica dove e come gli operai vivevano.
É il modello del panottico della fabbrica sulla vita operaia.
Successivamente, nelle democrazie di massa, i diritti sociali si
presentano come corollario dei diritti politici maschili, sviluppano dei
sistemi di assistenza estesi che vengono trasformati in sistemi di
assicurazione. Vi è una diffusione di pratiche socializzate di
riproduzione che riguardano l’operaio-massa, con misure di igiene, le
assicurazioni sociali, l’inizio del welfare. Si fa largo l’idea che una
parte della riproduzione della forza-lavoro debba essere garantita
socialmente attraverso il rapporto di lavoro. É tipico dell’inizio del
welfare associare i diritti al lavoro. Avviene una socializzazione di
parte del lavoro di riproduzione, che già precedentemente si era
sviluppata con la sanità e con la scuola: non dimentichiamoci che queste
erano cose prima attribuite alla famiglia. E si amplia con i servizi
sociali. Ma questo tipo di socializzazione comincia a connettersi e a
scontrarsi con il lavoro di riproduzione gratuito della forza-lavoro.
Finora questi due discorsi non si erano incontrati, funzionavano
separatamente. Da un lato alcuni servizi e alcune erogazioni di denaro
connesse alla riproduzione della forza-lavoro diventano parte integrante
del salario operaio: l’allargamento della scolarità, la sanità
universalizzata, una parziale diffusione di nidi e scuole materne,
assegni famigliari, assegni di assistenza e di accompagnamento, aiuti
vari alle famiglie meno abbienti, ecc. Dall’altro, una parte del lavoro
di riproduzione viene immessa nel mercato, diventa salariato. Siccome
c’è una forte incompatibilità tra il lavoro salariato di produzione di
merci e il lavoro gratuito di riproduzione, la ricerca di autonomia
salariale da parte delle titolari del lavoro domestico gratuito scombina
le progettualità keynesiane e beveridgistiche del mercato del lavoro
tendenzialmente volte verso il pieno impiego della forza lavoro
maschile. Entrano le donne e questa progettualità si rompe, l’ingresso
massiccio delle donne nel mercato del lavoro cambia l’orizzonte.
Le effettive dimensioni del lavoro di
riproduzione, che diventa sempre più complesso perché in parte
socializzato, e perché aumentano le aspettative sulla qualità della
riproduzione degli individui, non sono chiare: il metodo teorico
marxiano dell’inchiesta diventa necessario per capire su quale terreno
le soggettività possono esprimere desiderio di cambiamento.
L’inchiesta nel lavoro di riproduzione delle persone
Per analizzare il lavoro di
riproduzione, la prima cosa da dire è che viene di solito escluso dalle
analisi politiche ed economiche a causa della rigida separazione
esistente tra vita pubblica e vita privata, che sta alla base di tutte
le analisi politiche. Diventa fondamentale, invece, un’analisi delle
effettive dimensioni del care: uso il termine inglese per riferirmi al
lavoro di riproduzione delle persone, vedremo come non ci sono molte
parole per analizzare le specifiche sezioni di questo tipo di lavoro. E
non solo delle dimensioni del care, ma delle dinamiche di potere che
sono insite in ogni relazione che lo implica e necessita, cioè la vita
degli individui. É importante costruire uno strumento concettuale del
care, o del lavoro di riproduzione delle persone, sia per capire di cosa
esattamente si stia parlando e per inserirlo nelle teorie politiche,
sia per collocare il care direttamente nella catena di relazioni che
costituisce il nostro terreno di studio, storicizzandolo e inserendolo
nell’evoluzione dei rapporti di classe e di sesso. Una prima distinzione
da fare è tra cura e servizio, cioè tra un’assistenza che soddisfa i
bisogni che una persona assistita non è in grado di soddisfare da sé, la
cura, e un servizio che soddisfa i bisogni a cui l’assistito potrebbe
provvedere autonomamente. Diventa quindi necessario chiarire il modo in
cui i bisogni vengono definiti, e sulla base di questo, la posizione di
coloro che forniscono assistenza e la posizione di coloro che ricevono
assistenza. Inoltre, è necessario determinare la responsabilità dei
soggetti a cui è attribuita la funzione di riproduzione. Joan Tronto
disarticola la cura in quattro fasi, legate ai soggetti agenti o
riceventi la cura.[8] Questo ci permette già di valutare quanto il
lavoro di riproduzione sia un lavoro complesso ed estremamente
articolato.
Un passaggio ulteriore, approfondendo
queste categorie, consiste nell’analizzare quanto questo lavoro può
essere delegato al mercato o a momenti di socializzazione, e quanto
invece resta ambiguamente nelle maglie, sia neoliberali sia
conservatrici, della responsabilità personale. L’inchiesta, che in
questo caso è riflessione soggettiva su pratiche imposte socialmente, mi
permette di chiarire le articolazioni di questo lavoro non solo in
rapporto con il processo produttivo e con le dinamiche di genere, ma
anche con la possibilità di socializzazione (salariata o meno) di alcune
sue parti. Mi rendo conto di forzare molto l’analisi. Nonostante gli
appellativi con cui lo nomino siano un po’ inventati, in realtà
definiscono non solo delle differenze semantiche, ma proprio costitutive
di questo lavoro. Una prima distinzione la faccio tra lavoro domestico,
lavoro riproduttivo e lavoro di cura. Il lavoro domestico è quello che
gli economisti chiamano il lavoro elementare, quello che serve per
sopravvivere, cioè pulire, lavare, cucinare, fare la spesa, ecc. Il
lavoro di riproduzione è il lavoro che serve a riprodurre la specie: non
è solo fare figli, ma è crescerli, creare le condizioni indispensabili
per la continuità della vita, la riproduzione della razza secondo Marx.
Il lavoro di cura, invece, ha a che fare con le relazioni, con la
continuità dei rapporti, con l’affetto, con il sesso. Non sono
esattamente separabili ovviamente, si intersecano e si sovrappongono, ma
hanno caratteristiche peculiari e sono costituiti da compiti che
possono essere attribuiti prevalentemente a soggetti diversi.
Il lavoro elementare è il più semplice,
il più socializzabile, il più trasferibile, tradizionalmente attribuito
alle donne, tradizionalmente non è mai stato in maniera esclusiva
gratuito o scambiato per segno d’amore: nella storia più recente le
classi abbienti e la borghesia hanno sempre assegnato alle domestiche il
lavoro elementare. Esso si può mercificare nel mercato o nei servizi
sociali con delle razionalizzazioni che implicano delle forme
organizzative inedite, si pensi ai gruppi di acquisto solidale, ai
servizi condominiali, al co-housing ecc. Il tempo di questo lavoro è
misurabile e il suo costo è quantificabile. É un lavoro ripetitivo,
faticoso, noioso, necessario, ma comprimibile, può essere sostituito in
alcune sezioni da macchine, per altre può essere diluito nel tempo, o
semplicemente ridotto cambiando stile di vita o paese (se si passa
dall’Italia ai paesi del nord Europa si vede come questo lavoro sia
decisamente ridotto).
Invece, il lavoro di riproduzione, oltre
a quello basilare generativo della specie (la maternità), ha a che fare
con le persone dipendenti. Chiaramente ingloba il lavoro elementare, ma
è anche un di più. Non si rivolge a un indistinto universo di soggetti,
ma a coloro che da soli non ce la farebbero, e non solo per incapacità
fisiche o mentali, cioè relativi all’età (bambini e vecchi) o a stati di
malattia, temporanei o perduranti nel tempo; ma anche a persone
assolutamente in grado di riprodursi, che però non hanno il tempo di
farlo, sia a causa dell’organizzazione del lavoro salariato, sia per
convenzioni sociali che costruiscono ruoli specifici per la riproduzione
degli individui. Per una parte di questo lavoro si può ricorrere al
mercato, con forme contrattuali individuali (si pensi ad esempio alle
badanti) oppure ai servizi del welfare, quando ci sono e offrono una
qualche garanzia, e in piccola parte anche ai servizi di volontariato
sociale. Inoltre la gestione totale delle persone dipendenti, oltre a
essere oggi costosa, richiede un lavoro di organizzazione, di presenza e
di controllo continuativo che non si può delegare. In questo caso i
soggetti che si attivano sono molteplici, ma non tutto può essere
esternalizzato. Le indagini statistiche ci dicono che la maggior parte
di questi soggetti sono comunque donne, sia salariate che non salariate.
Negli ultimi anni, in concomitanza di
due fenomeni quali da un lato l’aumento della circolazione dei flussi
migratori e dall’altro l’estensione della crisi delle disponibilità
finanziarie degli stati, si assiste ad uno spostamento della parte
salariata del lavoro di cura dal welfare statale al mercato, con forme
di socializzazione parziale nel territorio dovuta a singole iniziative
di cooperazione sociale. Ciò è dovuto al fatto che la riproduzione degli
individui dipendenti ha rigidità intrinseche ineliminabili dovute
all’aumento della speranza di vita e alla maggiore attenzione alla
qualità della vita delle giovani generazioni.
La terza definizione del lavoro di
riproduzione delle persone è il “lavoro di cura” o “affettivo”. , Questo
secondo me, è quello che sembra meno “lavoro”, quello che non dovrebbe
poter essere “contrattualizzato”. Per quanto riguarda il sesso mi pare
evidente che una parte di questo viene delegato al mercato, come nel
caso delle sex workers, e per il rimanente il discorso è già stato
trattato dalle analisi femministe a partire dagli anni Sessanta e non
entro qui nel merito. Comunque, tutti noi abbiamo bisogno che una
badante sorrida di tanto in tanto a nostra madre, è importante che
organizziamo delle festicciole per i nostri figli e che vengano gestite
delle relazioni al di fuori dei rapporti di lavoro. Nella nostra vita
quotidiana tutti noi abbiamo bisogno di consolazione, di affetto, di
vicinanza. É un lavoro che richiede partecipazione emotiva, sensibilità,
tatto, devozione. Ed è un lavoro che dalle pieghe del privato, pur
sembrando meno “lavoro”, è stato travasato anche nel mercato, non
diventando lavoro salariato, ma facendone parte integrante ed essendo
sussunto dalla forma del lavoro richiesta dal mercato.
Nell’organizzazione del lavoro salariato, infatti, particolarmente nei
servizi alla persona, sempre di più succede che venga richiesto questo
tipo di disponibilità: alle commesse di sorridere, nei call center di
modulare la voce, alle badanti e alle tate di mostrare di voler bene ai
nostri vecchi e ai nostri bambini, in moltissimi lavori sempre di più di
dimostrare di volere il bene del cliente, del paziente o di chi ci si
occupa. Qualità che vengono richieste maggiormente nei settori a
prevalente occupazione femminile, ma che si sta estendendo a tutte le
forme di lavoro che richiedono relazione. fino a richiedere adesione,
partecipazione emotiva e affettiva e identificazione con la “merce”,
“l’azienda”, il “prodotto”.
A partire da queste definizioni del
lavoro riproduttivo delle persone, per quanto arbitrarie e su cui si può
discutere, mi sembra importante verificare se c’è stato un cambiamento
negli ultimi decenni soprattutto in rapporto al lavoro di produzione di
merci. Negli anni Settanta il rapporto produzione-riproduzione da un
punto di vista di genere all’interno del processo di accumulazione
capitalistica vedeva per le donne un allungamento smisurato della
giornata lavorativa cumulando il lavoro riproduttivo a quello della
riproduzione della forza lavoro. C’era una donna, un salario, due
lavori: era la doppia giornata lavorativa per le donne che lavoravano
anche per il mercato. E quando questo non avveniva vi era l’esclusione
forzata delle donne della parte pubblica e salariata, cioè l’esclusione
dal mercato del lavoro. Oggi abbiamo una maggiore inclusione formale
delle donne nello spazio pubblico, particolarmente nel mercato del
lavoro: mi sono chiesta se questo corrisponde a un’indistinzione per le
donne tra spazio privato e spazio pubblico, oppure se questo continuum
si rompe, dove ciò avviene. Ho pensato che questo si rompa in un tempo
composito, multiforme, articolato su diversi piani, in cui comando e
subordinazione si intersecano, e si associano in forme organizzative
complesse della vita quotidiana. Questa in fondo è la condizione oggi
delle donne. Però, negli anni Settanta teorizzavo come risposta
capitalistica alla richiesta di salario al lavoro domestico un processo
di salarizzazione del lavoro di riproduzione in alcune sue forme, e lo
pensavo maggiormente legato a un allargamento del welfare e quindi a una
trasposizione di una parte dei servizi sociali oppure nel mercato, e
ovviamente questo sarebbe stato possibile con una messa al lavoro
salariato delle donne in una dinamica di piena occupazione[9], cosa che
oggi dicono molti economisti, come Ferrera o Gosta Esping Andersen[10] e
che avviene in alcuni paesi europei, con un allargamento al mercato del
settore dei servizi. Dalla metà degli anni ’80 si è avuta una
macroscopica ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale.
È stata probabilmente una risposta al movimento femminista, che ha
espresso il rifiuto del lavoro domestico da parte di molte donne, con un
loro ingresso massiccio nell’area del lavoro salariato. Fa eccezione
l’Europa dell’Est, dove lo smantellamento del socialismo reale ha
provocato invece un aumento della disoccupazione femminile, a malapena
compensata dai processi migratori di cui le donne sono state
protagoniste in questi anni. Oggi il processo di salarizzazione è in
atto, ma in termini diversi da quelli ipotizzati e più complessi. Oggi
in moltissimi casi abbiamo due donne, due lavori, ma un solo salario da
condividere. La cura delle persone dipendenti si paga, i servizi
costano. D’altronde perché il sistema funzioni bisogna da un lato che
l’immissione di nuova FL nel mercato sia competitiva (e le donne con il
gender pay gap sono i soggetti ideali) dall’altro che chi sostituisce
parte del lavoro gratuito erogato precedentemente nella riproduzione
delle persone sia disposto a lavorare con un salario inferiore ai prezzi
di mercato di altri lavori analoghi (lavoro nero, immigrati più o meno
regolari, lavoro nei servizi pagato meno di altri lavori). Inoltre nel
mercato generale del lavoro l’emergere di forme contrattuali atipiche,
l’aumento del part-time o delle assunzioni personalizzate, sembrano oggi
venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al
desiderio (necessità?) di molte donne di conciliare maternità, cura e
lavoro salariato.
Il secondo punto è la femminilizzazione
del lavoro salariato. Evidentemente, se tutta la struttura sociale, se
tutte le relazioni, se tutte le possibilità di socializzazione sono
basate sul lavoro di riproduzione delle persone con le sue qualità
intrinseche, è necessario che ce ne facciamo una ragione e che ne
imponiamo la rilevanza. Le donne sono l’elemento centrale a cui viene
richiesto questo tipo di lavoro di riproduzione, in tutte le sue forme,
gratuito o salariato. La domanda è: per le loro qualità connaturate? Non
credo proprio. Sicuramente c’è un addestramento, spesso dovuto a
condizioni di dipendenza economica o di subordinazione sociale che
permettono di sviluppare la sindrome dello schiavo, che consiste
nell’elevata sensibilità ai bisogni del padrone, attenzione e cura,
capacità di rispondere con affetto e devozione. Quando da questo dipende
la propria sopravvivenza, è chiaro che il coinvolgimento è totale.
Quando si accudiscono famigliari o si lavora in settori come quello
della cura si presume che gli individui manifestino una serie di
comportamenti, motivazioni e competenze speciali; l’atteggiamento che ci
si aspetta è quello della protezione, della cooperazione,
dell’emotività e dell’altruismo. Se c’è un’aspettativa sociale, spesso
si risponde a questa. Si dà per scontato che si debba emanare affetto ed
empatia. Quindi, da un lato c’è una condizione soggettiva che ci
obbliga a essere empatici e attenti ai bisogni altrui, dall’altro c’è
una convenzione sociale per cui ci si aspettano determinati
atteggiamenti da alcuni soggetti specifici. In breve, queste qualità che
chiamiamo femminili, così generalizzate tra le donne o almeno che ci si
attende appartengano alle donne, forse non sono innate, forse non
appartengono esclusivamente alle donne, forse sono frutto della loro
collocazione sociale e dei ruoli loro imposti storicamente. Ma queste
qualità “femminili” oggi sono richieste a largo raggio nel mercato,
perché la società è diventata una società di servizi, la produzione di
merci si è rarefatta, richiedendo sempre di più competenze che esulano
dalla forza fisica e dalla rigidità degli atti ripetitivi. Come dice
Kathi Weeks nell’intervista fatta da Anna Curcio su UniNomade[11], “in
fabbrica esisteva una disciplina. I lavoratori erano accuratamente
diretti e controllati e quindi non era un problema se non si
identificavano con il lavoro. Ma nel lavoro di cura, nel commercio o nei
servizi e in tutte quelle altre forme di lavoro che costellano
l’universo postfordista non c’è un analogo modello di controllo e
monitoraggio”. La richiesta dell’immissione qualitativa di fattori
emotivi e socializzanti, motivazionali ed affettivi risponde
all’esigenza di controllo sul lavoro e sulla produttività altrimenti di
difficile realizzazione. Sono caratteristiche, vorrei sottolinearlo, che
non sono contrattualizzabili (come si fa a mettere in un contratto
l’attenzione, la sensibilità, l’interesse?) e che implicano la necessità
di una individualizzazione del rapporto di lavoro (questa esigenza la
si ritrova nella richiesta diffusa da parte dei sindacati padronali di
passaggio da una contrattazione nazionale ad una contrattazione
aziendale, per non dire individuale).
In ogni caso il processo di
“femminilizzazione del lavoro” richiede a tutti i lavoratori/trici
queste qualità che diventano “costitutive” del lavoro in una società
della conoscenza e della “relazione”.
Una delle caratteristiche, che però
voglio sottolineare, della femminilizzazione del lavoro, oltre alla
richiesta di attitudini empatiche, è la modificazione dell’uso del
tempo. Il tempo da lineare diventa processuale, cioè vi entrano più cose
contemporaneamente senza gerarchie. Chi si occupa di riproduzione delle
persone è abituato a trasferirsi da un tempo all’altro della vita
quotidiana, una madre lo sa. Vi sono infatti tempi diversi nella cura,
alcuni comprimibili, altri che si possono spostare, altri ancora che non
hanno possibilità di dilazione. Salta la dicotomia tra tempo pubblico e
tempo privato, tra il tempo del corpo e i tempi sociali, in un’urgenza –
come dice Carmen Leccardi[12] – “capace di erodere le possibilità di
controllo da parte degli individui costretti a misurarsi con un tratto
epocale di incertezza e di ingovernabilità del futuro”. Le donne sono
addestrate a questi tempi non lineari, su piani diversi. Ora vengono
trasferiti all’addestramento di tutti i lavoratori.
Alcune considerazioni
Se la riproduzione delle persone è un
settore fondante della vita, l’analisi delle sue componenti – cioè
l’inchiesta – è complessa, perché lavoro e piacere si intersecano e si
sovrappongono, come servizi e amore, affetto e fatica. Le persone
addette alla riproduzione svolgono ruoli altrettanto complessi,
coinvolgenti e dotati di grandi ambiguità rispetto a possibilità di
cambiamento. La grande domanda a cui io non rispondere è: della
riproduzione dell’individuo cosa possiamo mettere in comune, cosa
possiamo socializzare, e cosa resta di privato, di intimo, di non
delegabile al lavoro salariato o a forme innovative di cooperazione?
Nella società della conoscenza possiamo pensare di rimettere al centro
del nostro orizzonte i bisogni degli individui, della carne e dei
sentimenti? Non si tratta di mortificare l’ingegno a favore del corpo e
degli affetti, si tratta di riconoscerne laicamente l’indissolubilità e
di costituire una funzionalità diversa: non la carne, il corpo, la vita,
il benessere in funzione dell’ingegno (produzione, invenzione,
conoscenza), ma esattamente l’inverso. L’obiettivo politico ed etico
dovrebbe essere la responsabilità verso la buona vita per ciascuno, con
tempi di vita che abbiano un riconoscimento sociale. Io direi che
cercare di risolvere questo problema ci pone di fronte a una scelta
obbligata, che rivoluziona l’orizzonte del rapporto
produzione-riproduzione capovolgendone le priorità: riproduzione delle
persone come senso prioritario da dare all’attività umana. La ricerca
della buona vita (mi piace evocare la “buona vita”, citata in alcune
costituzioni dell’America del Sud, molto di più della felicità, perché
la buona vita ha dentro di sé la riproduzione) richiede non solo un
reddito di cittadinanza (una ridistribuzione della ricchezza prodotta
che soddisfi i bisogni della vita), ma anche cooperazione sociale per la
riproduzione, per il lavoro elementare, una progettualità per inventare
forme di convivenza accettabili al di fuori e contro i tempi e gli
spazi del lavoro salariato, costruendo nuove forme di relazione e di
socializzazione. Per elaborare un qualsiasi progetto in merito bisogna
smetterla di pensare a un soggetto astratto e perfettamente autonomo.
Questo implicherebbe un paradosso, che diventa evidente nelle situazioni
in cui i rapporti di dipendenza, di affetto e di autorità sono
leggibili solo assumendo la parzialità e la concretezza del punto di
vista che ci fa riconoscere relazioni complesse in rapporto ai bisogni e
alla loro soddisfazione. Penso al rapporto madre-figlio,
infermiera-paziente, ecc.: qui l’autonomia dell’individuo crolla
completamente, c’è autorità, c’è riproduzione, c’è dipendenza, c’è
bisogno. Infatti non è solo questione dei rivendicare dei diritti, ma
anche di riconoscere dei bisogni. Il diritto tende a negare che siamo
tutti reciprocamente dipendenti da qualcuno e accentua la dipendenza di
persone che sono diverse, perché il riferimento principale è l’individuo
autonomo. Infatti, noi assistiamo al paradosso di politiche del lavoro,
sociali e famigliari che operano con una concezione dell’individuo
indipendente, cioè di colui che opera sul mercato del lavoro libero da
impegni famigliari. In realtà, la possibilità stessa di questo individuo
di agire sul mercato (mi ricollego qui a quello che ho detto
all’inizio) dipende dal lavoro di cura, dal lavoro riproduttivo di
qualcuna che, viceversa, è concepita come dipendente, sovente dal
salario altrui.
Diversamente dalle teoriche del
dono[13], non mi pare possibile tornare a valorizzare la gratuità dello
scambio. E nemmeno valorizzare a mezzo denaro quelle attività
misconosciute che vengono messe sotto il termine “cura”. La posta in
gioco non è nemmeno quella di trovare misure di inclusione, di
considerare le donne come uno specifico: si tratta invece di prendere in
considerazione le caratteristiche della vita e della memoria storica di
donne, per produrre un’idea di società per intero, a partire dalla loro
posizione strategica e dalla complessità di questa loro vita.
L’inchiesta operaia prevedeva il contatto e la conoscenza con i soggetti
della produzione per la costruzione di un progetto politico e
organizzativo. Oggi le donne dimostrano che un altro mondo è possibile,
senza che si passi per la necessità di una costruzione della conoscenza
dei rapporti di sfruttamento: tutto è evidente, basta volerlo vedere,
basta il “partire da sé”. Secondo Alain Touraine “Le donne sono, per
così dire, avvantaggiate perché oggi fare politica significa
riconciliare pubblico e privato. Le rivendicazioni femminili sono
globali, hanno un discorso inclusivo.”[14]
note:
note:
[1] Raniero Panzieri (1921-1964),
teorico marxista, è uno dei fondatori dell’operaismo. Fondò la rivista
Quaderni Rossi, con altri, tra cui Mario Tronti, il quale si separò nel
1963 fondando la rivista Classe Operaia.
[2] Raniero Panzieri (1965) Uso socialista dell'inchiesta operaia, http://eipcp.net/transversal/0406/panzieri/it/base_edit
; inoltre Merli S. (1994) (a cura di)Spontaneità e organizzazione. Gli
anni dei Quaderni Rossi 1959-1964. Scritti scelti, Pisa, BFS edizioni, http://www.bfs-edizioni.it/
[3] cfr. Chisté L., Del Re A., Forti E. (1978- 1979) Oltre il lavoro domestico, Milano, Feltrinelli.
[3] cfr. Chisté L., Del Re A., Forti E. (1978- 1979) Oltre il lavoro domestico, Milano, Feltrinelli.
[4] Libro primo de Il capitale: “Ormai
dobbiamo considerare più da vicino quella merce peculiare che è la
forza-lavoro. Essa ha un valore, come tutte le altre merci. Come viene
determinato?”…“Il valore della forza-lavoro, come quello di ogni altra
merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e,
quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico. In quanto
valore, anche la forza-lavoro rappresenta soltanto una quantità
determinata di lavoro sociale medio oggettivato in essa. [...] Quindi la
produzione di essa presuppone l’esistenza dell’individuo. Data
l’esistenza dell’individuo, la produzione della forza-lavoro consiste
nella riproduzione, ossia nella conservazione di esso. Per la propria
conservazione l’individuo vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi
di sussistenza. Dunque il tempo di lavoro necessario per la produzione
della forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la
produzione di quei mezzi di sussistenza; ossia: il valore della
forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessariper la
conservazione del possessore della forza-lavoro. [...] Ma
nell’attuazione della forza-lavoro, nel lavoro, si ha dispendio di una
certa quantità di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani, la quale deve a
sua volta esser reintegrata. Questo aumento d’uscita esige un aumento
d’entrata. Se il proprietario di forza-lavoro ha lavorato oggi, deve
esser in grado di ripetere domani lo stesso processo, nelle stesse
condizioni di forza e salute”….“La somma dei mezzi di sussistenza deve
dunque essere sufficiente a conservare l’individuo che lavora nella sua
normale vita, come individuo che lavora”. Il proprietario di questa
forza-lavoro, però, non solo spreca energie nel lavoro, ma è anche
mortale. “Dunque, se la sua presenza sul mercato deve essere
continuativa, come presuppone la trasformazione continuativa del denaro
in capitale, il venditore della forza-lavoro si deve perpetuare, ‘come
si perpetua ogni individuo vivente, con la procreazione’”….“Le
forze-lavoro sottratte al mercato dalla morte e dal logoramento debbono
esser continuamente reintegrate per lo meno con lo stesso numero di
forze-lavoro nuove. Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari
alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle
forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa
razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato” (K.
Marx, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1956, 1, I, pp. 186-189).
[5] Tutto un filone di femminismo
marxista italiano (penso a Mariarosa Dalla Costa, ad Antonella Picchio,
io stessa ed altre) aveva definito già negli anni ’70 la riproduzione
delle persone un lavoro. All’inizio del 2012, una sentenza del giudice
del lavoro di Venezia, Margherita Bortolaso (non a caso una donna) ha
definito una casalinga “lavoratrice non dipendente” concedendo al marito
il congedo parentale per la cura dei figli in quanto “entrambi i
coniugi lavorano”. Il marito, poliziotto, si era visto negare questo
permesso dal suo datore di lavoro, il Ministero dell’Interno, di qui la
causa di lavoro. Quindi, la definizione del lavoro domestico come
lavoro, e della casalinga come lavoratrice, oggi ha anche una sanzione
giuridica. Un’idea che ha fatto strada.
[6] Boeri, T., Burda, M.C. and Kramarz,
F. (eds.) (2007), Working Hours and Job Sharing in the EU and USA,
Oxford University Press.
[7] Zanini A. (2013) “Marx: un’introduzione alla critica dell’economia politica” in Roggero G., Zanini A. (a cura di) Genealogie del futuro, Verona, Ombre corte/Uninomade, pp. 13-27.
[8] Tronto J. (2010) “Cura e politica
democratica” in La società degli individui, n. 38, anno XIII, pp.34-42
individua quattro fasi della cura: 1) uno è interessarsi a (caring
about), che richiede la qualità morale dell’attenzione e una sospensione
del proprio interesse; 2) prendersi cura (taking care of),
un’assunzione di responsabilità nei confronti degli altri; prestare cura
(care leaving), che significa svolgere un lavoro che richiede
competenza; 4) ricevere cura (care receiving), perché ci deve essere una
risposta della persona di cui ci si è presi cura, e questa risposta
deve essere valutata con responsabilità.
[9] Cfr. Chisté L., Del Re A., Forti E.(1979, 1980) cit.
[10] Ferrera M. (2008) Il fattore D,
Milano, Mondadori; Gosta Esping-Andersen (2011) La rivoluzione
incompiuta. Donne, famiglie, welfare, Bologna, il Mulino.
[11] “La riproduzione del possibile. Oltre il lavoro, oltre la famiglia” intervista di Anna Curcio a Kathi Weeks in uninomade.org
[12] Leccardi C. (2009) Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell'accelerazione, Roma, Laterza, p. 8.
[12] Leccardi C. (2009) Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell'accelerazione, Roma, Laterza, p. 8.
[13] Per tutte: Vaughan G. (1997) For Giving. A Feminist Criticism of Exchange, Austin, Plain View Press.
[14] Cfr. la Repubblica 30 luglio 2012, p. 21.
Nessun commento:
Posta un commento