“Lino dovrebbe fare il lavapiatti”: è il mantra della cerchia sociale e familiare di Lino. Del resto, anche lui si ripete che, certamente, dovrebbe fare il lavapiatti.
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La società civile, quanto i migliori della politica, sostengono che quelli come Lino dovrebbero fare i lavapiatti. Così Lino trascorre le giornate cercando di fare il lavapiatti ma, ogni ristoratore che consulta ripete il suo stesso mantra: “Lino dovresti fare il lavapiatti, ma non nel mio ristorante”.
La perversione di un labirinto del genere, quindi, palesa la sua macelleria non solo nelle dinamiche economiche, ma nelle narrazioni che se ne fanno, corrompendo il cervello di chi cade quanto la fame.
Un blackout di logica che annienta i Penultimi Uomini, togliendogli anche la capacità di elaborare una progettualità credibile: spingendoli sempre più verso la cronicizzazione. Non è solo il problema di soldi, ma la stessa percezione ulcerosa della propria condizione.
L’indice di povertà assoluta è superato in questi casi da un nuovo parametro: l’indice di povertà percepita. Il come ci si vede e si viene guardati nelle tortuosità delle sconfitte: uno specchio che ti rimanda una immagine malata, fragile, indigeribile.
I meccanismi aggreganti presenti nel Terzo Mondo rendono fisiologiche, quindi condivisibili, condizioni di miseria. Basti pensare alla casa, che seppur una capanna fatta di lamiera, è certamente più amena di un cartone per strada.
Poi, se la condizione di accampato avviene dentro un accampamento, innesca meccanismi di scambio, di microeconomia, di socialità e di amore. Mentre una società livida e basata sul consumismo crea una pena accessoria all’ergastolo di povertà: alienazione perpetua.
Nella iper-libera e iper-ricca Hong Kong spopolano le case bara: piccole gabbie di un metro quadrato, impilate le une sulle altre, come quelle delle galline.
Lino, nel mezzo del cammin della sua vita, si è ritrovato in una selva oscura… Le selve oscure della contemporaneità hanno molteplici fattori scatenanti.
Aspettative, tranelli finanziari, guai personali ma, in tanti casi come quello di Lino che ho osservato, ci sta una componente comune: l’incapacità, personale e dei propri ambiti, di leggere velocemente i fatti ed elaborare strategie atte a superarli.
Come se sbagliando strada, che può capitare a chiunque, una forza oscura conduca quelli come Lino a continuare a sbagliarla, fino a perdersi del tutto.
Un meccanismo mentale, oltre che economico, che ha a che fare con Identità, vere o presunte, più che con solidità economiche, anche esse vere o presunte.
Così nel tentare di salvare le apparenze o di evitare bilanci, si finisce in un frullatore, dove non si apprende ad essere poveri, né si riesce a fingere di essere ricchi.
I fallimenti del 2008, ad esempio, sono nelle quotidianità di molti amici come dei cancri esistenziali. Lino è un po’ così: sospeso tra arroganze e umiliazioni, senza capire più il confine tra le due estremità della sua sconfitta.
Il degrado della piccola borghesia e delle nuove povertà nasce proprio da questa ambiguità del nostro sentire.
Si presuppone, ma solo negli altri, una dinamicità sociale che, oltre a non esistere e a non avere nella nostra cultura imprenditoriale un campo di atterraggio, può essere invalidante o impraticabile per determinate persone.
Lino è laureato, ha superato i cinquanta, ha bruciato un po’ di equilibri economici ed esistenziali: non è detto che la cultura punitiva in circolazione possa aiutarlo. È un disfunzionale, ma non riesce ad accettarlo né, tantomeno, a farlo accettare agli altri.
La disfunzionalità rende persone come Lino incapaci a reggere ritmi e riti delle nuove schiavitù e, in ultima analisi, glieli rende anche impraticabili, proprio perché esclusi dagli stessi mercanti di schiavi.
Però, nel frattempo, il suo degrado aumenta e, con il passare degli anni, diventa sempre più ingarbugliato.
Eppure, i salotti ultra liberisti dei rosa confetto, quanto dei fascio leghisti, inneggiano ad un dinamismo sociale (altrui) che fa a pugni con l’immobilismo reale del presente.
Negli Stati Uniti, ad esempio, la logica degli “sporchi 20 dollari”, ossia di lavori umili e sottopagati ma concentrati come orario e velocità di trovarli, sono un paradigma culturale, oltre ad un paracadute sociale.
Si sbucciano patate nel fast food, ma solo qualche ora e si ricomincia a guardarsi intorno dopo un licenziamento, una caduta o una malattia. Avendo, però, il tempo libero per farlo e le risorse minime per sopravvivere.
Un meccanismo anti welfare che consente di andare avanti in un day by day mesto, ma che lascia porte aperte alla speranza di una ricollocazione nella società o, almeno, alla praticabilità di una esistenza dove per “Pane Quotidiano” si intende qualcosa che vada oltre al pane.
Quell’opportunità di poterci tentare e di avere dei codici comuni in cui lo stesso tentativo si nutre di pratiche comportamentali aperte, anche negli interlocutori, come nei propri ambiti affettivi di riferimento.
Quel non sentirsi fallito che, invece, da noi è stigma incancellabile, anche negli occhi di chi ti ama. Si rimane in un limbo viscido, dove l’attesa assume i contorni di un fine pena mai.
Il nostro schiavismo è onnivoro e pretende il corpo dello schiavo a sua disposizione 24 ore su 24, distruggendo la stessa idea di vita.
In questo senso ogni resistenza residua della propria Identità, diventa ostacolo all’oblio insito nella cancellazione della Umanità, richiesta appunto dal nuovo schiavismo per poter accedere al banchetto degli avanzi.
Un tutto o niente che, dopo aver attraversato deserti di dolore e di indigenza, diventa una resa totale che per alcuni può essere suicidio, per altri puro auto annientamento ma, per quelli come Lino, impraticabile: perché la disfunzionalità lo rende fragilissimo, vero, ma incapace di essere altro che sé stesso.
Si deve diventare macchine, per non diventare rifiuti Umani non riciclabili. Oppure, nell’ostinazione di voler continuare a vivere o nell’incapacità a smettere di farlo, si deve mettere in conto l’ergastolo di marginalità che i cicli produttivi di questo capitalismo cannibale impongono a chi è debole, disfunzionale o diverso.
Il “notte & giorno” degli extracomunitari è incostituzionale, eppure sostituisce un welfare inefficiente, almeno nelle sacche di privilegio borghese. Bambini o anziani, di fatto, restano al mondo o ci arrivano grazie a questa forma di schiavismo.
Così come le varie forme di contratti a somministrazione, proprio nella traslazione del Lavoratore da Uomo in corpo ad ore, non prevedono quelle garanzie fondanti della nostra Costituzione.
Eppure, vengono tollerate da Sindacati e Opinione Pubblica come dazi ad una modernità, dietro cui invece si nasconde l’antichissimo anelito alla schiavitù.
Un mio amico afroamericano era caduto in tutti i tranelli delle nuove povertà. Una oscillazione che improvvisamente aveva cancellato lavoro, credibilità economica, equilibrio psicologico. Era caduto nella marginalità totale, finendo anche senza elettricità in casa, oltre che nella impossibilità di pagare l’affitto.
È tornato a New York dalla sorella benestante, ha trovato subito un lavoretto da due ore, ha rimesso in piedi rapporti e decenze, si è ricollocato nel mondo. Ora ha una casa, un lavoro consono alle sue qualità, degli amici e un centro di gravità permanente.
Lino, invece, pur potendo contare sulla solidarietà della famiglia, non ha trovato nulla e campicchia ai margini del mondo, acuendo ogni distanza da equilibri e compostezze.
Le massonerie finanziarie hanno, in pratica, importato dagli Stati Uniti elementi atti a privilegiare la natura vampiresca delle aristocrazie italiote, senza però immettere nel nostro DNA quelle particolarità insite della cultura nordamericane.
Queste rendono possibile le innumerevoli “seconde chance” fisiologiche in quel tipo di capitalismo e, purtroppo, dopo decenni di Bunga&Bunga e di sinistri rosè thatcheriani, anche nel nostro.
Persino le banche guardano con sospetto i clienti che non sono mai falliti, mentre da noi basta saltare qualche rata per essere condannati da insolventi, cattivi pagatori: sentenze per cui quelli come Lino non possono comprare neanche un’aspirapolvere a rate.
Eppure, è proprio il microcredito che può agevolare forme di auto impiego. Uniche strade, oltre le criminali narrazioni dei nostri mass media, che possono condurre alla emancipazione persone che per età, disfunzioni o altro, non sono appetibili al mercato del Lavoro.
Una commessa ha la stessa carriera, per durata, di un calciatore ma non ha gli stessi contratti o contatti. Così non è detto che, se perde il lavoro a quaranta anni, lo possa ritrovare o campare senza.
Ma, se decide per sopravvivere di vendere qualcosa in strada, viene denunciata dallo stesso commerciante che non vuole assumerla o che l’ha licenziata, viene messa in pericolo dagli agguerriti eserciti dei venditori abusivi extracomunitari, viene infine trattata dalle Forze dell’Ordine come se fosse una seguace sanguinaria di Bin Laden.
Una licenza ambulante, però, in mercati frequentati, costa quanto il fitto di un negozio. Poi la nostra kafkiana burocrazia come uno schiaccia sassi distrugge nella sua ossessiva presenza queste forme di auto impiego.
L’inconsistenza di una Sinistra Antagonista e delle sue venti sfumature di rosso in perenne lotta tra loro, favorisce solo la nascita di auto nominati gruppi dirigenti, ostaggi di Ego deformi e distanti dai tormenti della Esclusione.
Anzi, nel paradosso delle presunte élite nostrane, al mio amico Lino gli è capitato di svolgere qualche mansione per un cantore delle 10 euro all’ora, uno di quelli che raccoglieva le firme per la proposta di legge, ricevendo però una paghetta di circa 1,20: forse è il gesuitismo che pervade anche alcune isteriche nicchie Comuniste del paese.
Qui si palesa la cruda differenza tra Umiltà e umiliazione, dove alla necessità di essere umili nelle inevitabili cadute della vita, viene sovrapposto l’istinto ad umiliare degli altri. La pecora assassina che è in noi, sempre pronta a dare un calcetto a chi è steso a terra.
Lino ha attraversato tutti questi disgusti traendone due unici volgarissimi insegnamenti: “Più uno si abbassa e più mostra il c…” e “Anche per fare tenerezza bisogna avere qualcosa di esotico e un piccolo borghese decaduto non fa pena a nessuno, nemmeno a sé stesso”.
In tal senso l’oblio della informazione rispetto alla mattanza della piccola borghesia, al suo precipitare verso un sottoproletariato senza arte o parte, è emblematica di come l’estetica del dolore crei audience solo dove presenta connotati di esoticità. Il bambino del Terzo Mondo sporco di fango vince sul bambino alienato e abboffato di psicofarmaci di periferia.
La nevrotica delle narrazioni in circolazione è criminale, proprio perché oltre a condannare alla povertà fisiologica 20 milioni di italiani, li condanna ad una tristezza, fatta di livore, di sensi di colpa e di una emarginazione solida e invalidante.
Così nella maschera del “fannullone sul divano” viene sminuito il ruolo delle automazioni, delle delocalizzazioni, delle concentrazioni tra grandi aziende che, di fatto, cancellano milioni di posti di lavoro in Occidente.
Viene cancellato il torbido meccanismo degli equilibri finanziari, delle privatizzazioni e dei patti di stabilità che hanno cancellato, nella Pubblica Amministrazione, quanto nel suo indotto altri posti di lavoro.
Grande Distribuzione, commercio on line, crisi dei consumi, poi, hanno desertificato interi quartieri che non hanno più una saracinesca aperta. Il lavoro non ci sta e quello che ci sta non è adatto a tutti.
Eppure, nessuno lo racconta, nessuno si assume la responsabilità di paragonare i nostri distretti dell’abbandono ad enormi campi di concentramento, dove tranne i forni crematori, tutto sembra simile a quella alterazione nazi fascista che guerre&pandemie sembrano voler imporre ai nostri orizzonti.
Un cane turbato non si guarda mai indietro, se supera il suo buco nero. Il passato non innesca disgusti, proprio perché superato un trauma non incide sulla quotidianità.
Viceversa, il turbamento umano è qualcosa che porta disgusti continui e mette attorno al corpo di quelli come Lino una commedia meschina: un farsi schifo personale che si somma al fare schifo che trasuda dallo sguardo altrui.
Un po’ perché la stessa caduta, di qualunque natura essa sia, mette in moto meccanismi di difesa negli altri. Un po’ perché si diventa minaccia, estranei, diversi anche negli ambiti dove si era accolti prima della rovina.
Meccanismi che messi in moto rappresentano micro macchine del fango, senza però che questo fango inneschi aureole di santità come per i vip.
Tutto sommato, ad esempio, nelle carriere di scrittore una censura o una critica feroce spesso sortiscono l’effetto opposto: quante stroncature hanno favorito la notorietà di Vannucci? Chi lo conosceva prima?
È come se anche la recita del marginale, per essere vendibile, dovesse assumere contorni pornografici e non tutti sono disposti o in grado di girare film porno.
Risultato: l’allontanamento coatto e progressivo di quelli come Lino dal genere umano. Una scomparsa, meglio una dissolvenza, dove si liquefa ogni praticabilità, dalla seduzione erotica alla credibilità finanziaria.
Certi sprofondi creano in alcuni sprofondati odio nel cuore, in altri quella furbizia atavica che trasforma la fragilità in qualcosa di mostruoso: quel lato oscuro che può rendere eroi o vermi in pochi secondi.
Opporsi a queste forze nere che si hanno dentro spingono, possono spingere, ad opporre una inerzia esistenziale: un lento andarsene via.
Come pescare senza esca e senza amo: nessun confronto con gli altri e con sé stesso, come forma estrema di autodifesa non tanto dal mondo, quanto da sé stessi. Rompere le catene dell’auto isolamento non è facile, richiede attenzione, cura, rispetto per le vite perdute.
La solidarietà è sempre azione, mai pippa mentale: azione circolare e orizzontale, mai giudizio o livida carità. È un prendere parte, farsi carico, sporcarsi le mani nella vita degli altri, senza pretendere che sia uguale alla nostra.
Lavoro non ci sta e l’unica soluzione per sopravvivere come Società, ammesso che vogliamo rimanere in un alveo di pacifica convivenza, è quella di accettarlo e inventare forme di Welfare che partano dal duplice assioma: per vivere bisogna mangiare e per mangiare bisogna vivere.
Le stentate misure di sostegno alla povertà attuali, oltre a favorire eserciti della bontà e formatori di nulla, servono a pochissimo.
Stupisce che magistrature così attente non abbiano ancora posto la giusta attenzione sul dramma delle finte formazioni, atte a dare lauti gettoni di presenza ai presunti formatori, senza portare una minimissima potenzialità professionale o uno straccio di competenza ai finti formati.
Una recita macabra che, a sua volta, contribuisce solo alla umiliazione e alla cronicizzazione di ogni marginalità.
Lezioni fatte di silenzi, saluti, pause, filmati mandati da chissà chi che portano fiumi di danaro a chi ne ha già e portano sconforto e pigrizia a chi, invece, avrebbe bisogno di sentirsi utile, stimolato, oltre che aiutato.
Perlopiù si tratta di collegare un telefono a questi formatori e sonnecchiare o fare le parole incrociate, mentre dall’altra parte si sonnecchia o si fanno le parole incrociate.
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