sabato 3 agosto 2024

In attesa della guerra, due parole sul sionismo

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Forse non c’è niente di più “occidentale”, parlo di questo Occidente decaduto e tanto più violento quanto più è debole, che uccidere un negoziatore di pace, come appunto è accaduto con l’assassinio – commissionato da Netanyahu – del leader dell’Ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Per giunta l’omicidio è avvenuto a Teheran aprendo la possibilità per una risposta iraniana che tutti ormai si attendono a giorni se non a ore, almeno secondo quanto affermano i servizi statunitensi e inglesi. Non si è trattato di un atto inconsulto, ancorché come al solito feroce: l’unica speranza per Israele di uscire fuori dal cul de sac in cui si è volontariamente cacciata, è quella di provocare una guerra più generale in tutto il Medio Oriente, in maniera da essere difeso dall’Impero senza i tentennamenti che l’immensa strage di Gaza, assai più vasta di quella delle cifre ufficiali, provoca nei tutori di Tel Aviv. Si tratta in effetti anche di uno sgravio di responsabilità troppo gravi per essere dimenticate. In questo frangente, non è nell’interesse dei leader sionisti di Israele prolungare una situazione “né di guerra né di pace”, subire un logoramento economico terribile ed esporsi al pericolo di una guerra civile con i coloni armati e le sette integraliste. Quindi ci troviamo di fronte a una provocazione mirata, lucida, spietata per il mondo intero.

Del resto è evidente che se gli Usa attaccassero l’Iran e anche Hezbollah in risposta alla risposta, come già propone il delirante senatore Graham, un prodotto del catabolismo americano, di certo scenderebbero in campo in qualche modo anche Russia e Cina e il conflitto diventerebbe generale con tutto quello che ne consegue. Tuttavia, comunque vada a finire, diventa sempre più chiaro che il sogno sionista non solo è morto, ma in effetti non si è mai realizzato. Israele dopo aver rubato la terra ai palestinesi per interposte potenze anglosassoni, come risarcimento del genocidio tentato compiute da altri e in qualche modo facilitate anche da coloro che oggi sono i difensori di Tel Aviv, doveva essere la patria degli ebrei, una patria che li liberasse dall’essere senza radici. Reseau International pubblica un articolo nel quale viene citato Aaron David Gordon, uno dei primi teorici del sionismo il quale scriveva: “Siamo un popolo parassitario: non abbiamo radici nella terra, né terra sotto i piedi. Non siamo solo parassiti economici, ma anche saprofiti della cultura altrui, della loro poesia, della loro letteratura e persino dei loro valori e ideali. Ogni corrente della loro vita ci trasporta, ogni brezza che soffia nelle loro regioni ci trasporta. Dovremmo allora stupirci di non essere nulla agli occhi degli altri popoli?” Di qui l’idea di fondare uno stato ebraico, magari mandando al macero gli straordinari contributi degli ebrei alla nostra civiltà e che – al contrario di quanto si pensi – sono soprattutto di carattere laico e non riconducibili a fattori religiosi che pure hanno avuto il loro peso, ma soltanto in negativo. Si trattava di un’aspirazione condivisibile, che tuttavia si è realizzata in maniera monca e a detrimento di altri.

Così questa nascita alla fine è fallita non soltanto perché si è imperniata sull’occupazione di terre altrui ormai da millenni ( in Palestina nel 1898, considerato l’anno in cui i sionisti dichiararono il loro desiderio di creare lo Stato di Israele, c’era solo il 5% di ebrei), ma anche perché questo Stato è sempre vissuto grazie al fondamentale appoggio totale di altri Paesi e soprattutto agli ebrei della diaspora che nel frattempo avevano assunto posizioni di rilievo negli Usa, dopo averle avute ( e in parte conservate) in Europa prima delle guerre mondiali. Sì adesso c’è terra sotto i piedi, ma questa terra è contesa, incerta, la cui stessa esistenza si deve ad altri: Gordon scriveva di voler far fuoriuscire gli ebrei da una condizione parassitaria e dipendente dalla cultura occidentale con la fondazione di uno Stato, ma la condizione di dispersione e di dipendenza in forme diverse rimane. Certo, parte della colpa ricade sulle potenze anglosassoni che hanno fatto pasticci a non finire in Palestina e hanno agito nella prospettiva di creare una testa di ponte in Medio Oriente, rimane però il fatto che ancora oggi il progetto sionista dipende in gran parte dall’esterno visto che questa corrente non è stata in grado di fondare un Paese normale, ma vive, al pari degli Usa nella convinzione di essere eccezionale.

 

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