E dunque la procura di Ravenna ha preso posizione: nel gran circo delle denunce che ruota intorno a Roberto Vannacci è possibile dare dell’anormale a un omosessuale ma no, non si può dare del coglione a un generale. È diffamazione.
(Flavia Perina – lastampa.it)
Si rischia la multa o peggio il processo, se si è proprio decisi ad andare fino in fondo (Pier Luigi Bersani è alquanto deciso, ha scelto il processo). Il generale si conferma un generatore di querele, attive e passive. È stato segnalato per istigazione all’odio dal Sindacato dei Militari, dall’Associazione Tripla Difesa, dalla procura di Roma, da Paola Egonu, dal Codacons, 110 esposti in pochi mesi, e finora è stato sempre assolto. La sua linea difensiva è granitica: non si processano le opinioni. E tuttavia questa certezza di marmo non si estende alle opinioni di quelli che lo criticano, tantoché l’anno scorso, dopo l’uscita del suo celebre libro, il suo avvocato annunciò querele per ogni «aggressione verbale» ricevuta: la causa contro Bersani è solo la prima e più famosa del pacchetto.
Oltre i dettagli giudiziari del conflitto, brilla la crescente follia del nostro dibattito pubblico. In ogni altra Italia che abbiamo conosciuto sarebbe quantomeno discutibile l’offesa alla reputazione di uno che minaccia di sbottonarsi i pantaloni per mostrare la sua virilità alla signora che lo critica («Potrebbe rimanere stupita»). Lo stesso turpiloquio è diventato opinabile. Abbiamo visto governatori di Regione dare della stronza alla premier e negarne il valore offensivo in nome del «linguaggio forte di battaglia». Abbiamo visto la premier rispondere usando l’epiteto come un punto d’onore, «buongiorno, sono la stronza». Che altro ci serve per riconoscere che nel conflitto tra partiti la parola e persino i gesti hanno perso qualsiasi significato vero, che distinguere tra insulto e provocazione politica è diventato impossibile?
Guardarsi intorno, piuttosto, che gli altri stanno pure peggio di noi. Gli spin doctor della celebrata prima democrazia del mondo passano le giornate a trovare le ingiurie più funzionali alla campagna elettorale. Liberale pazza, stupida come un sasso, falsa nera (Donald Trump contro Kamala Harris). Stupratore, vigliacco, mentalmente incapace (Kamala Harris contro Donald Trump). Nell’altra famosa democrazia, la Gran Bretagna, le bugie social sull’omicidio di tre bambine a opera di un folle hanno appena provocato rivolte di massa, arresti a centinaia, interi quartieri devastati. L’hate speech è da un pezzo motore della storia, insieme alle fanfaluche per allocchi sparse per farsi belli o imbruttire i nemici. Elon Musk che avvalora il confino alle Falkland degli arrestati inglesi. Trump che denuncia un’inesistente tassa sul bacon, promette di azzerare l’inflazione con i dazi e di deportare milioni di immigrati usando la Guardia Nazionale. Chiacchiere, spettacolo per un pubblico di bocca buona, nel nostro piccolo ci siamo passati già da un pezzo con quelli della scatoletta di tonno, di quota cento, della flat tax, dell’Italexit, dei blocchi navali, e qualcuno si era persino preoccupato dicendo: così finiamo male. Ma figuriamoci.
Dovendo ipotizzare reati nel quotidiano show della politica si dovrebbe pensare piuttosto alla circonvenzione di incapace o agli schiamazzi in luogo pubblico. Diffamazione? Aggressione verbale? Mavalà. I tribunali riconoscano l’inutilità di affannarsi a comprimere nel codice penale un dibattito dove le parole sono solo vento. Letto, registrato, archiviato. Si prenda atto dei tempi nuovi e del cambio di segno dello stesso turpiloquio, che non ferisce né rovina più nessuno ma è uno strumento come un altro di lotta per il potere, esattamente come le querele. Se nello spettacolare circo delle denunce aperto dal libro di Vannacci è consentito dare dell’anormale a un omosessuale e con accorti giri di parole sostenere la non-italianità dei neri, dargli del coglione con analoga cautela verbale che sarà mai? Ordinaria dialettica, libera opinione, o anche spettacolo, fate voi, ma non abbiamo abbastanza giudici e pm per stare dietro ai trapezisti, ai domatori di tigri, e figuriamoci ai pagliacci.
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