venerdì 12 aprile 2024

Franco Beradi Bifo. La fine di Israele.

Più passano i giorni, più Israele procede nella sua campagna di sterminio, più si isola dal resto del mondo, più comprendo che il pogrom del 7 ottobre, pur essendo, come non può che essere un pogrom, un’azione atroce moralmente inaccettabile, è stato un atto politico capace di cambiare la direzione del processo storico. 


comune-info.net Franco Beradi Bifo

La conseguenza immediata di quell’azione è stata lo scatenamento di un vero e proprio genocidio contro la popolazione di Gaza, ma il genocidio era in corso in modo strisciante da settantacinque anni, nei territori occupati, in Libano, in Siria.

Nel medio periodo, però, credo che lo stato colonialista di Israele, sempre più apertamente nazista nel suo modo di operare, non sopravviverà a lungo.

Quando il contesto è profondamente immorale, l’azione non può essere eticamente accettabile se vuol essere efficace. E’ l’orrore della storia, alla quale non siamo capaci di sfuggire se non disertando la storia. L’occupazione della terra palestinese da parte di un avamposto dell’imperialismo occidentale denominato Israele è una condizione di immoralità assoluta. Entro questo contesto non è possibile dunque alcuna azione efficace se non immorale.

Credo che ben presto ci renderemo conto del fatto che Israele non ha niente a che fare con la storia del mondo ebraico, anzi ne è la negazione. Per questo lo spettacolo genocidario provocato dal pogrom del 7 ottobre ha messo in moto una dinamica destinata a sgretolare lo stato colonialista.

La maggioranza dei cittadini di quello stato appoggiano il genocidio, centomila coloni sono stati armati dallo stato coloniale per continuare a estendere l’occupazione e lo sterminio nei territori, e Israele gode di un’indiscutibile superiorità tecno-militare. Ciononostante la dinamica che si sta ormai sviluppando sta creando una condizione di guerra totale che lo stato israeliano non potrà sostenere a lungo.

Per spiegare quel che voglio dire, cedo la parola a quello che è probabilmente uno dei più grandi scrittori ebrei del Novecento, Amos Oz, che anzitutto spiega qual è il contributo che la cultura ebrea ha portato al mondo.

“Mio zio era un europeo consapevole in un’epoca in cui in Europa nessuno si sentiva europeo, a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano pan-slavi, pan-germanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi, slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. Mio padre diceva sempre: in Cecoslovacchia vivono tre nazionalità, cechi, slovacchi e cecoslovacchi, cioè gli ebrei. In Yugoslavia ci sono i serbi, i croati, gli sloveni, e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di iugoslavi, e perfino con Stalin, ci sono russi e ucraini e uzbechi e ceceni e catari, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico…. Oggigiorno l’Europa è completamente diversa, oggi è piena di europei, da un muro all’altro. Tra parentesi anche le scritte sui muri sono cambiate completamente: quando mio papà era ragazzo a Vilna stava scritto su ogni muro d’Europa: giudei, andatevene a casa, in Palestina. Passarono cinquanta anni e mio padre tornò per un viaggio in Europa dove i muri gli urlavano addosso: ebrei, uscite dalla Palestina” (Una Storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2004, 86-87).

La cultura ebraica è il fondamento dell’universalismo razionalista, del diritto, e dello stesso internazionalismo operaio. Quando il nazionalismo europeo, soprattutto tedesco e polacco, ma anche francese e italiano, si scatenò contro quel corpo estraneo che era la cultura universalista ed internazionalista degli ebrei, molti ebrei europei dovettero fuggire dall’Europa per riparare in Palestina, negli anni in cui il sogno sionista sembrava potersi realizzare in condizioni pacifiche. Tra questi anche, i genitori dello scrittore.

“Ovviamente sapevamo quanto fosse dura la vita in Israele: sapevamo che faceva molto caldo, che c’erano il deserto e le paludi, la disoccupazione e gli arabi poveri nei villaggi, ma vedevamo sulla grande mappa appesa in classe che gli arabi in terra d’Israele non erano molti, forse in tutto mezzo milione a quell’epoca, sicuramente meno di un milione, e c’era la certezza che ci fosse spazio a sufficienza per qualche milione di ebrei, che probabilmente gli arabi sarebbero stati incitati contro di noi come il popolino in Polonia, ma si sarebbe potuto spiegare loro che da noi avrebbero tratto solo vantaggi, economici, sanitari, culturali e quant’altro. Pensavamo che entro breve tempo qualche anno appena gli ebrei sarebbero stati la maggioranza in Israele – e allora avremmo dimostrato a tutto il mondo come ci si comporta in modo esemplare con una minoranza. Così avremmo fatto noi con gli arabi: noi, che eravamo sempre stati una minoranza oppressa, avremmo trattato la nostra minoranza araba con onestà e giustizia, con generosità e avremmo costruito insieme la patria, diviso con loro tutto, non li avremmo mai assolutamente mai fatti diventare dei gatti. Che bel sogno” (pag. 240).

Era il sogno di un’epoca in cui esisteva una coscienza solidale, egualitaria, e internazionalista. Ma la costruzione dello stato di Israele contraddice completamente quell’aspirazione, come Hanna Arendt comprese fin dalla fine degli anni Quaranta quando disse che il progetto di creazione di uno stato sionista era “un colpo mortale per quei gruppi ebraici di Palestina che hanno instancabilmente sostenuto la necessità di un’intesa tra arabi ed ebrei”.

Dopo l’Olocausto, dopo avere ucciso sei milioni di ebrei, i popoli europei parvero soddisfatti quando gli ebrei decisero di andarsene in un territorio controllato dagli inglesi.

“Ci si può forse consolare con il fatto che, seppure gli arabi non ci desiderano qui, i popoli d’Europa d’altro canto, non hanno la benché minima voglia di vederci tornare a popolare da capo l’Europa. E il potere degli europei è comunque più forte di quello degli arabi, pertanto c’è qualche probabilità che comunque ci lascino qui, che costringano gli arabi a digerire quel che ‘Europa cerca di vomitare” (pag. 402).

Gli europei hanno vomitato fuori la comunità ebraica, dice Amos Oz, hanno prima sterminato poi espulso quella che pure era la comunità più profondamente europea, perché incarnava più compiutamente i valori dell’Illuminismo, del razionalismo, e del diritto, mentre in Europa prevaleva il nazionalismo. Proprio perché gli ebrei non avevano un rapporto ancestrale con la terra europea, il loro europeismo era fondato sulla Ragione e sul Diritto, non sull’identità etnica.

Il sionismo è dunque stato il tradimento della vocazione universalista della cultura ebraica moderna. Ma non solo: il sionismo è stato anche l’identificazione delle vittime con il carnefice nazista, il tentativo di affermare la nazione ebraica (ossimoro orribile) con gli stessi mezzi con cui la nazione germanica (ed europea) aveva sterminato la comunità non nazionale degli ebrei.

Questo groviglio è ora – io credo – giunto al punto di crisi finale. Può darsi che lo snodo che viene sia ancor più tragico di quello che abbiamo visto fino a questo momento. Ma lo stato di Israele, strumento del dominio euro-americano sul Medio Oriente – e sul petrolio – è destinato a esplodere presto.

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