martedì 15 ottobre 2013

Libro. I narcos visti da un fotoreporter: Alessandro Scotti “Chasing the Dragon” (Isbn edizioni, 2013)

Chasing the Dragon è un bel libro di Alessandro Scotti, che usa la scrittura come normografo alle sue foto. Racconta l’eroina in Iran, l’oppio del Myanmar, la coca in Guinea. Cerca di capire, se soffre lo dice, se si indigna dissimula.

Roberto Saviano  L'Espresso Roberto Saviano













Alessandro Scotti ha generato un libro bellissimo. Non l’ha scritto, non l’ha fotografato. Anzi l’ha scritto e l’ha fotografato. Il libro si intitola “Chasing the Dragon” (Isbn edizioni, 2013) e Scotti è un fotoreporter che usa la scrittura come un normografo alle sue foto. Perché la sua testa e il suo sguardo così funzionano. Fotografa ciò che vede con l’obiettivo e con gli occhi. L’obiettivo è il suo terzo occhio. E di questa triplice visione si nutre il suo lavoro.

“Chasing the Dragon” mostra con linearità un lavoro di anni, un lavoro di erosione della superficie per arrivare dove tutto comincia. Un’opera dove la cura estetica delle storie e delle immagini è necessaria alla comprensione del potere dei narcos e dell’aberrazione dei corpi divorati dalle droghe. Il racconto del percorso del narcotraffico: l’eroina in Iran, l’oppio del Myanmar, le nuove colonie africane di coca in Guinea Bissau e poi Colombia, Messico, Giamaica, sono le dimensioni di questo inferno. Alessandro Scotti è stato tra i primi in Italia a raccontare questi mondi non con l’inciampo del canto civile. Nemmeno con l’ammiccamento romantico del noir. Alessandro Scotti guarda e basta. Cerca di capire, se soffre lo dice, se si indigna dissimula, se partecipa non ha vergogna, se ha rabbia cerca di stemperarla per andare avanti e capire ancora.

Se ha paura, usa quella paura come segnale per prendere precauzioni. Non è un eroe, non è un missionario, ma un giornalista e un fotoreporter nel senso più puro dei termini. Nel compiere il suo viaggio non ha avuto fretta: ha preso il tempo che serviva. Il tempo, quel che spesso manca alle attuali riflessioni, che nella loro presunta urgenza perdono la ragion d’essere nel momento stesso in cui vengono concepite, scritte e rese pubbliche. Una lezione di giornalismo che è meditazione, interpretazione. E non solo cronaca.

Con la consapevolezza che l’osservatore non descrive solo quel che vede, ma incide in maniera irreversibile sul corso degli eventi, sul fenomeno che sta in qualche modo cristallizzando con immagini o parole. Osservare è diventare parte. Raccontare atrocità rende atroci. “Se guarderai a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te”, scrisse Nietzsche. Allo stesso modo le conversazioni, gli aneddoti riportati, le foto scattate di corsa in situazioni di pericolo, sono testimoni di un mondo che è esistito in quel determinato modo perché Alessandro Scotti era lì a tentare un percorso di verità. Una strada narrativa che raccolga, nel suo peregrinare tra le nazioni e le vicende, dettagli, umanità, violenze: un almanacco di guerra e di mercato che è in sé materiale per capire il proprio tempo.

In un momento in cui il commento cinico è spesso l’unico che viene percepito come autentico e il politicamente scorretto l’unica sintassi ordinaria, aprire gli occhi, aprirli davvero, spalancarli per guardare, evitare di mettere distanza è esercizio fondamentale. Lavorare sei anni a un progetto, coltivarlo, cercare le persone giuste, non solo alti funzionari ma gente del posto, gente semplice, che deve diventare fidata e che deve imparare a fidarsi di te, significa fare un tentativo per capire il mondo in cui si vive, ma per farlo va deposto ogni cinismo. Va deposto per questioni di metodo: il cinismo mette distanza e perché vi sia comprensione, la distanza deve essere ridotta a zero.

Spesso si ritiene che tutto ciò che è composto, rigoroso, ragionato sia come compromesso, debole, accondiscendente. Sull’altra riva l’urlo, lo sberleffo, il commento sarcastico acquistano forza perché aumentano i decibel, perché colpiscono occhi e orecchie. “Chasing the Dragon” è tutt’altro. “Chasing the Dragon” è libero dai labirinti di furba comunicazione. In genere gli osservatori, masse di cronisti, blogger e la moltitudine commentante che produce parole, analisi e ancora giudizi, si accontenta della superficie, di quella superficie immediatamente riconoscibile da chi legge, ascolta o guarda.

Ma quando si decide di andare a fondo, di mostrare la ferita, si chiede a chi entra nel tuo mondo di mettere da parte per quelle ore le proprie categorie di giudizio. Si chiede di fare ciò che chiedevano ai loro lettori i romantici inglesi ovvero di sospendere l’incredulità, di mettere da parte le proprie facoltà critiche per poter godere di un’opera di fantasia salvo poi scoprire che qui è tutto incredibilmente e dolorosamente vero.

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