lunedì 7 ottobre 2013

Teatri di guerra: per una foto si muore

Nell'epoca del giornalismo 'virtuale' ci sono ancora reporter coraggiosi che vanno sul campo, nelle zone dei conflitti più cruenti, e rischiano la vita per testimoniare al mondo ciò che hanno visto. Dal 1992 ne sono stati uccisi 1005. Ora Getty Images lancia una campagna di denuncia.

L'Espresso di Gigi Riva





{} Si diceva un tempo che quattro categorie di persone godono di un salvacondotto nelle aree di conflitto: i becchini, i dottori, i diplomatici e i giornalisti. Bel tempo. In cui esisteva una sorta di codice cavalleresco a beneficio anzitutto dei civili.
Il Novecento, assieme ad altre nefandezze, si è premurato di smentire statistiche consolidate. Con un plastico ribaltamento di cifre. Prima guerra mondiale: 90 per cento di morti militari e 10 per cento civili. Seconda guerra mondiale: 50 e 50 (e Adolf Hitler con la Shoah ha avuto tanta parte nel riequilibrio). Le guerre balcaniche che hanno chiuso il secolo: 90 per cento di morti civili, 10 per cento militari. Il Millennio si è aperto con l’Iraq e, se mancano dati certi sull’entità globale delle vittime, il rapporto 10 a 1 è pressoché da tutti accettato. Il bilancio è ancora inattendibile per l’Afghanistan e provvisorio per la Siria dove comunque è stimato come altissimo il numero dei morti “non combattenti”.
A Sarajevo, In Bosnia, finì l’illusione circa i becchini: si aspettavano gli assembramenti dei funerali per rincarare la dose. A Bengasi, in Libia, hanno perso l’immunità i diplomatici con l’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens. Sui dottori si spara in tutti i fronti e persino sulla Croce Rossa.

Nel lungo arco di tempo che va dal 1992 ai giorni nostri abbiamo anche imparato che le guerre, non più fra eserciti ma spesso asimmetriche, oltre che “contro i civili” sono anche “contro i giornalisti” (peraltro civili anch’essi). Ne sono stati ammazzati 1.005 secondo il “Committee to protect journalists”, di cui 552 negli ultimi dieci anni: uno a settimana. In 595 casi gli autori sono rimasti impuniti. Nel 2013 siamo già a 37. I rischi, per un mestiere diventato pericolosissimo, contemplano anche il sequestro. Se noi italiani abbiamo per fortuna potuto riabbracciare Domenico Quirico, dal 6 giugno non si hanno notizie dei francesi Didier François e Edouard Elias (autore di alcune delle fotografie di queste pagine), che sarebbero tenuti prigionieri da un gruppo di ribelli al regime di Bashar al-Assad.

Non è secondario sottolineare che la strage (di questo si tratta) riguarda soprattutto fotografi e cineoperatori. Per un duplice motivo. Intanto perché per urgenze professionali devono essere il più vicino possibile agli scontri, con l’obiettivo e la cinepresa, e chi scrive può stare un passo indietro: 30 o 300 metri possono fare la differenza tra la vita e la morte. E poi perché nell’epoca dell’ “Homo videns”, per usare il titolo del fortunato libro di Giovanni Sartori, sono le immagini a scuotere, provocare indignazione, talvolta favorire l’intervento internazionale, assai più dei racconti. Non è stato forse così anche con le fotografie delle vittime del gas nervino in Siria che hanno convinto Obama all’azione prima che il dittatore di Damasco accettasse di mettere sotto controllo e poi distruggere il suo arsenale? Le immagini spesso diventano l’emblema di un conflitto. Ricordate il pellicano bagnato nel petrolio della prima guerra del Golfo? O la strage del mercato di Sarajevo? Per non dire del Gheddafi o del Saddam cadavere.

L’informazione, al pari ma all’opposto della propaganda, è diventata un’arma. Affermazione che ha un valore ambivalente. Gratifica per i rischi che si corrono e i sacrifici che si fanno. Al tempo stesso può essere usata dalle parti in causa. Che spesso non vogliono testimoni delle loro atrocità: sempre meno battaglie con regole rispettate, sempre più pulizie etniche, stupri, massacri di popolazione inerme. Nel mezzo di giochi più grandi di loro stanno i fotoreporter, quasi sempre giovani, che hanno l’ambizione della documentazione, oltre che della gloria individuale. Tale era ad esempio Chris Hondros, americano, l’altro autore degli scatti di queste pagine, ucciso a Misurata, in Libia, il 20 aprile 2011, all’età di 41 anni, assieme al collega Tim Hetherington, dopo una lunga esperienza in diverse parti del globo. Perché, se non c’è più salvacondotto, non c’è nemmeno esperienza, per quanto vasta possa essere, che mette al riparo da un cecchino o dall’esplodere di una granata.

È retorica e priva di senso la domanda: ne vale la pena? Quelli che se la sono fatta si sono risposti di sì. Sono sempre di più coloro che accorrono se c’è il fascino irresistible della prima linea, un misto di dovere professionale e di sfida con se stessi. E, anche spostando l’attenzione dalla scelta personale all’interesse generale, il prodotto non cambia: abbiamo bisogno di informazione indipendente, tantopiù da quei luoghi dove si cerca di negarla. Per questo suona provocatoria e con la risposta incorporata la campagna “A day without news?” , lanciata da Aidan Sullivan, ex fotografo, ora vicepresidente di “Getty Images”. Lavorava per lui Chris Hondros. Oltre ai familiari, è lui che sta più in ansia per la sorte di Edoaurd Elias. Da una parte c’è l’umana partecipazione ai lutti e la preoccupazione per chi sta in cattività, dall’altra una riflessione più ampia che riguarda la categoria.

Sullivan non vuole continuare ad assistere inerme alla carneficina e il primo passo è la sensibilizzazione su ampia scala circa un dramma altrimenti vissuto nel chiuso delle redazioni. Così, avuto il sostegno di molte firme illustri e delle Nazioni Unite, ha aperto un sito Internet, promuove convegni, lancia appelli, coinvolge associazioni per la difesa dei diritti umani. Nella convinzione che, se è impossibile azzerare i rischi, si può puntare sulla loro riduzione, con una serie di interventi anche legislativi, per cui si studino deterrenti e ammazzare un fotoreporter provochi delle conseguenze per i killer.

Il dato impressionante è quello degli omicidi impuniti: 595. Ragiona Aidan: «Se gli autori sapessero che possono essere perseguiti, credo che sarebbe un primo passo in avanti. Per questo vogliamo lavorare con altri enti presenti nelle zone di crisi, come le ong, per investigare, raccogliere prove e portare in tribunale i responsabili perché rispondano dei loro crimini». Nobile intento, naturalmente, di difficile attuazione pratica, se chi spara sulla stampa spesso fa parte di milizie irregolari che godono, magari, di sostegno in loco, non sono estradabili e collezionano stragi nel nome di qualche dio terribile. Certo si potrebbe pensare a una Corte speciale nell’ambito del Tribunale internazionale, sancendo, anche nei fatti, che eliminare chi sta facendo il proprio lavoro per un bene prezioso come le news, commette un crimine di guerra. Una strada lunga da percorrere ma sarebbe una minima tutela.

Non bastassero i precedenti, è la Siria che ha fatto aprire gli occhi. Anche là fronti incerti e mutevoli, bande soprapposte, criminalità comune che si mescola a quella fondamentalista, rendono il quadro molto critico. Tanto da suggerire ai capi desk di rinunciare. È quanto non si vorrebbe. Ma chi parte lo dovrebbe fare almeno con un minimo di preparazione, non decisiva ma comunque utile. Si chiede Sullivan: «Avete in Italia corsi che preparano a frequentare i conflitti? Va diffusa il più possibile una sorta di educazione». Dal canto suo, sottopone i numerosi che si presentano in ufficio chiedendo «voglio andare in Siria», a numerose domande per capire scopo, desideri, grado di consapevolezza, accorgimenti minimi. Precisa: «Non intendo scoraggiare nessuno, solo renderli consapevoli dei rischi». Anche perché troppo spesso, come ammette, soprattutto per i neofiti, «la guerra è una scorciatoia per cominciare una carriera». E i premi Pulitzer sono generosi con chi ritrae il dramma umano per eccellenza ed è oltretutto fotogenico. Ma non è sufficiente la sola predisposizione a tenere in mano una Nikon, se non si sa di storia di quel luogo, presupposti, situazioni che si possono incontrare. Se non si distingue il rumore di un cannone da quello delle bombe di un aereo. Proprio perché non si è rassegnato ad avere «a day without news», Sullivan si è messo l’elmetto per la sua campagna. Sarebbe bello non fosse lasciato solo sul fronte della sensibilizzazione. Come i fotografi sul fronte reale.
Advertisement

Nessun commento:

Posta un commento