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Benché in Italia ci sia una sorta di incongrua ammirazione verso il giornalismo anglosassone, esso è nato e si è sviluppato nell’ambito delle necessità dell’impero britannico e poi americano: al di fuori del cortile di casa il giornalista è sempre stato una figura polimorfa tra informatore, propagandista e spia all’occasione, senza alcun chiaro confine tra queste queste antitetiche attività. Il fenomeno è poi esploso nel dopoguerra quando le necessità della battaglia ideologica contro l’Unione sovietica e la necessità di tenere i Paesi europei nel recinto della cosiddetta cortina di ferro, ha sviluppato queste attività, spesso portandole sul piano editoriale. Così che non è raro che alcuni giornalisti abbiano contatti con i servizi, che alcuni siano aiutati da essi nelle carriere, che vi siano vere e proprie scuole che insegnano questo strano mestiere o alcuni centri mediatici organici a tutto questo e magari legati ai pochi tycoon dell’informazione che poi determinano gli interi assetti della comunicazione nelle “colonie”. A causa delle scatole cinesi societarie e dei rapporti di azionariato i collegamenti non sono sempre evidenti, ma sempre estremamente efficienti. Magnati Come Rupert Murdoch ad esempio. E questo nome ci porta a quello di Cecilia Sala che ha sempre lavorato direttamente o indirettamente dentro questo mondo, almeno da quando non ha conseguito una laurea.
Leggendo i pezzi della Sala che sono disponibili ci si accorge che sono mera propaganda “telefonata” come si dice nel gergo giornalistico, tipo quello dei russi che combattono senza calzini. Perciò posso solo ipotizzare perché l’Iran abbia scelto, proprio lei, con un pretesto formalmente legale, tra i vari giornalisti italiani presenti nel Paese, come merce di scambio per riavere l’ingegner Abedini, arrestato su mandato esplicito degli Usa e senza aver commesso alcun reato nel nostro Paese. L’accusa sarebbe quella -figuratevi un po’ – di collaborare alla progettazione di droni per il proprio Paese e di appartenere al movimento dei Pasdaran che tuttavia non sono considerati formazione terroristica né in Europa, né in America. Si tratta perciò da ogni punto di vista di un arresto illegale, compiuto sulla scorta di motivazioni illegali da parte di un altro Paese. So però perché si sia levata la canea dei giornali e delle televisioni sul caso che oltretutto è un nuovo strumento di distrazione di massa: chi ha ormai abbandonato del tutto la realtà finisce per essere preda degli ordini di servizio.
Però a me non interessa la direzione della corrente informativa del resto più che scontata, con qualche decina di persone che inalberano cartelli rigorosamente in inglese per la sua liberazione, quanto il fatto che la vicenda sia la più evidente dimostrazione della totale subornazione in cui vive il Paese e questo in un momento in cui sono al potere forze politiche che a parole dicono di volerne difendere la sovranità. Non abbiamo il peso di poter contrattare con gli Usa e nemmeno con l’Iran, non abbiamo alcuna possibilità di disobbedire a Washington visto che chi lo ha fatto è finito dentro il bagagliaio di una Renault 4 o è stato ridotto all’esilio; sappiamo anche che se estradiamo Abedini, Cecilia Sala difficilmente tornerà a casa. La nostra impotenza e incapacità politica, la nostra sudditanza così chiaramente esposta come una piaga, sarà il dramma che consumerà la fine di un’epoca. Mi domando se ci sarà mai qualche giudice che negherà l’estradizione di Abedini sulla scorta di ciò che sappiamo comportare la detenzione di terroristi negli Usa: non credo proprio anche se alcuni di essi sono estremamente sensibili quando si tratta di rimpatrio di clandestini in Paesi che non tutelano esplicitamente la diversità di genere, pure se non reprimono. Non mi piacciono le prigioni, ma Cecilia Sala rischia di essere stritolata da quelle stesse logiche che in qualche modo ha sostenuto durante la propria carriera e di essere la vittima sacrificale delle narrazioni occidentali.
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